Una discutibile sentenza del TAR Lazio sui fanghi da depurazione
di Gianfranco Amendola
Il Testo Unico Ambientale (D. Lgs 152 del 2006) è sicuramente una delle leggi più “complicate” del nostro paese perché, per capire qualcosa, occorre districarsi tra centinaia di disposizioni susseguitesi nel tempo senza alcun coordinamento; dove spesso le eccezioni sono più numerose delle regole e dove spesso, per capire qualcosa, non basta leggere la legge ma bisogna conoscere bene anche la giurisprudenza. L’opposto, insomma, di quello che ci vorrebbe per incrementare la legalità nel settore e cioè poche norme chiare, facilmente comprensibili da tutti, con diritti, doveri e sanzioni ben delineati. E invece il TUA che inizialmente constava di 318 articoli e 45 allegati, dopo appena 12 anni, aveva già subito 762 modifiche risultando così composto da 397 articoli con 105 nuovi (bis, ter, quater ecc.) articoli e 26 abrogati; senza contare le numerosissime modifiche apportate con nuovi commi (bis, ter quater ecc.); con una allucinante commistione di disposizioni eterogenee di tipo tecnico e giuridico con numerosi rinvii ad altre leggi e con evidenti controsensi, cui solo l’opera paziente della magistratura ha apportato qualche luce.
In questo quadro, di recente è stata pubblicata, in tema di fanghi da depurazione, una sentenza del TAR Lazio, sezione di Latina che, a nostro sommesso avviso, desta notevoli perplessità sia nel metodo sia nel merito, aprendo la strada ad interpretazioni che appaiono contrastanti con la lettera e con la ratio della normativa sui rifiuti.1
- I fatti e i termini della controversia
Ricapitoliamo i fatti: ACEA ATO 5 è il gestore unico del servizio idrico integrato del territorio cui appartiene il Comune di Fiuggi e, a tal fine, utilizza il depuratore denominato “Colle delle Mele” sito in Fiuggi ed altre 53 strutture con capacità inferiore a 10.000 abitanti equivalenti (c.d. impianti minori). In particolare, il plesso di Colle delle Mele è dotato di una linea idonea a garantire l’intero processo di trattamento dei fanghi da depurazione, mentre negli impianti minori non sono presenti tutte le fasi, non essendo tecnicamente e/o economicamente possibile realizzarle. E pertanto ACEA ATO 5 comunica alla Provincia di Frosinone la sua volontà di trattare presso l’impianto di Colle delle Mele anche i fanghi degli impianti minori. Ma, a questo punto, la Provincia di Frosinone blocca la procedura ritenendo questi fanghi rifiuti (cod. EER 190805) e, quindi, richiedendo per la loro gestione i relativi titoli abilitativi.
Dal canto suo, tuttavia, ACEA ATO 5 sostiene che i fanghi prodotti dagli altri impianti di trattamento delle acque reflue urbane dell’ATO non siano qualificabili come rifiuti, trattandosi di fanghi liquidi che non hanno completato il processo di trattamento, e, come tali rientranti nella previsione di cui all’art. 110, comma 3, lett. c), d.lgs. n. 152 del 2006.; e che potranno essere qualificati come rifiuti solo al completamento del processo di trattamento ovvero quando, non essendo ciò possibile, il soggetto produttore debba disfarsene avviandoli allo smaltimento.
In proposito, si ricorda che, ai sensi del richiamato art. 110, comma 3, lett. c) <<il gestore del servizio idrico integrato, previa comunicazione all’autorità competente ai sensi dell’articolo 124, è comunque autorizzato ad accettare in impianti con caratteristiche e capacità depurative adeguate, che rispettino i valori limite di cui all’articolo 101, commi 1 e 2, i seguenti rifiuti e materiali, purché provenienti dal proprio Ambito territoriale ottimale oppure da altro Ambito territoriale ottimale sprovvisto di impianti adeguati: … c) materiali derivanti dalla manutenzione ordinaria della rete fognaria nonché quelli derivanti da altri impianti di trattamento delle acque reflue urbane, nei quali l’ulteriore trattamento dei medesimi non risulti realizzabile tecnicamente e/o economicamente>>.
Di contro, la Provincia conferma il suo parere opposto rilevando come <<gli artt. 110 e 127, d.lgs. n. 152 cit., pongano un divieto generalizzato di utilizzo degli impianti di trattamento delle acque reflue urbane per lo smaltimento dei rifiuti, rispetto al quale la deroga chiesta da ACEA ATO 5 è norma di stretta interpretazione che non è applicabile al caso di specie, perché i fanghi costituiscono rifiuti in tutti i casi in cui il trattamento non venga effettuato o venga effettuato in luogo diverso dall’impianto di depurazione o in modo incompleto, inappropriato o fittizio (Cass. pen., sez. III, 5 ottobre 2011 n. 36096). Nel medesimo senso, l’art. 184, comma 3, lett. g), d.lgs. n. 152 cit., qualifica come rifiuti speciali proprio i fanghi prodotti, tra l’altro, dalla depurazione delle acque reflue>>.
- La motivazione del TAR Lazio (sezione di Latina)
La premessa da cui muove la sentenza del TAR in esame si basa sulla lettera del citato art. 110, comma 3, lett. c), d.lgs. n. 152 cit., che parla di “materiali” e non di “rifiuti” (come le lettere a e b); e, quindi, <<al fine di definire la presente controversia si pone la questione di distinguere ciò che è rifiuto da ciò che non lo è e, quindi, rientra nel concetto di “materiale”, cui si riferisce l’art. 110, comma 3, d.lgs. n. 152 cit.>>.
Pertanto, rifacendosi alla definizione di <<rifiuto>> (che si collega a <<disfarsi>>)2, il TAR, con ampi richiami di giurisprudenza, evidenzia che <<nel caso di specie, nell’accertare la natura di rifiuto dei fanghi in discorso, occorre ricercare l’intenzione oggettiva di ACEA ATO 5 s.p.a., valorizzando gli atti dalla stessa provenienti e la condotta complessivamente tenuta nella vicenda>>. Ed esclude l’intenzione di disfarsene in quanto i fanghi in oggetto venivano soltanto spostati da un impianto di depurazione dotato di funzionalità limitate ad uno più complesso, restando, quindi, sempre all’interno del ciclo di depurazione dei reflui gestito da ACEA ATO 5 sul territorio della Provincia di Frosinone, senza alcuna intenzione di disfarsene.
Secondo il TAR, in definitiva, <<ai sensi dell’art. 110, comma 3, lett. c), d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, i fanghi provenienti da impianti di depurazione dei reflui urbani, nei quali l’ulteriore trattamento non risulti realizzabile tecnicamente e/o economicamente, che siano avviati a trattamento presso altri impianti di depurazione condotti dal medesimo soggetto, gestore del servizio idrico integrato dell’ambito territoriale ottimale, non costituiscono un rifiuto, difettando l’intenzione di disfarsene, che il successivo art. 183, comma 1, lett. a), considera indispensabile per poter qualificare una determinata sostanza come rifiuto>>.
- Alcune perplessità
Diciamo subito che, a nostro sommesso avviso, quando si tratta del TUA, non si può fare affidamento alcuno sulla coerenza terminologica del legislatore. Tanto per restare al caso di specie, infatti, se pure è vero che l’art. 110, comma 3, lett. c) parla di “materiali” è anche vero che, se si legge il comma 5, appare evidente che la comunicazione di cui al comma 3 (relativa a <<rifiuti>> e <<materiali>>) deve contenere <<le caratteristiche e quantità dei rifiuti che intende trattare>>.
Così come basta leggere il comma 7 per capire che comunque, se interviene trasporto, con la sola eccezione della lettera b) (e non c), si devono applicare i relativi obblighi previsti per i rifiuti.
Tanto più che la granitica giurisprudenza comunitaria e nazionale sottolinea da sempre la necessità di procedere ad una interpretazione estensiva della nozione di rifiuto, per limitare gli inconvenienti o i danni inerenti alla loro natura; che il termine «disfarsi» comprende, al contempo, sia il “recupero” che lo “smaltimento” di una sostanza o di un oggetto ai sensi dell’articolo 3, punti 15 e 19, della direttiva comunitaria; che, in ogni caso occorre interpretare il verbo «disfarsi» considerando le finalità della normativa comunitaria e, segnatamente, la tutela della salute umana e dell’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso e del deposito dei rifiuti; che, infine, occorre assicurare un elevato livello di tutela e l’applicazione dei principi di precauzione e di azione preventiva; aggiungendo che la natura di rifiuto di un determinato materiale non viene meno in ragione di un accordo di cessione a terzi, né del valore economico dei beni stessi riconosciuto nel medesimo accordo3.
Ma vi è di più. Come bene evidenziato dalla Cassazione nella sentenza correttamente richiamata dalla Provincia di Frosinone, l’articolo 184, comma terzo, lettera g) del TUA individua espressamente come rifiuti speciali “…i fanghi prodotti dalla potabilizzazione e da altri trattamenti delle acque e dalla depurazione delle acque reflue e da abbattimento di fumi” mentre l’articolo 208, comma quindicesimo, si riferisce agli “impianti mobili che effettuano la disidratazione dei fanghi generati da impianti di depurazione e reimmettono l’acqua in testa al processo depurativo presso il quale operano, ad esclusione della sola riduzione volumetrica e separazione delle frazioni estranee…”. E, in armonia con queste premesse, l’art. 127, comma 1 del TUA, stabilisce espressamente che <<i fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue sono sottoposti alla disciplina dei rifiuti, ove applicabile e alla fine del complessivo processo di trattamento effettuato nell’impianto di depurazione>>, dove, con ogni evidenza, ci si riferisce al trattamento effettuato direttamente in loco. E pertanto, << l’articolo 127 D.Lv. 152\06, nell’attuale stesura, ha fornito una ulteriore indicazione per meglio stabilire il momento in cui la disciplina dei rifiuti deve applicarsi ai fanghi e che viene individuato nella fine del complessivo trattamento, il quale è effettuato presso l’impianto e finalizzato a predisporre i fanghi medesimi per la destinazione finale – smaltimento o riutilizzo – in condizioni di sicurezza per l’ambiente mediante stabilizzazione, riduzione dei volumi ed altri processi. Tale precisazione determina, come ulteriore conseguenza, l’applicabilità della disciplina sui rifiuti in tutti i casi in cui il trattamento non venga effettuato o venga effettuato in luogo diverso dall’impianto di depurazione o in modo incompleto, inappropriato o fittizio>>4. Esattamente quanto avveniva nel caso di specie, dove i fanghi, trattati in modo incompleto, venivano trasportati, per il trattamento completo, presso un luogo diverso dal sito di produzione e primo trattamento.
Né, in questo quadro, si capisce perché il TAR Lazio ritenga tale sentenza non applicabile al caso di specie, considerandolo <<una speciale ipotesi in cui la legge consente esplicitamente, previa autorizzazione dell’Autorità competente, che il trattamento dei fanghi provenienti dalla depurazione di acque reflue urbane possa essere effettuato in successione in due diversi impianti, in modo che possa essere completato il complessivo processo di trattamento, in linea con i criteri di priorità nella gestione dei rifiuti fissati dall’art. 179, comma 1, d.lgs. n. 152 cit., che pongono lo smaltimento quale ultima scelta rispetto al recupero>>. Considerazione che, comunque, se pure viene consentito il trattamento mediante trasporto in due impianti, non modifica affatto la loro qualifica di rifiuti con gli obblighi connessi, come del resto specifica testualmente e al di là di ogni ragionevole dubbio il comma 7 dell’art. 110 sopra già riportato.
Anche perché solo in tal modo si può controllare, come dice la Cassazione, <<il complessivo trattamento… finalizzato a predisporre i fanghi medesimi per la destinazione finale – smaltimento o riutilizzo – in condizioni di sicurezza per l’ambiente mediante stabilizzazione, riduzione dei volumi ed altri processi>>.
Del resto, analoga questione sostanziale si è posta per i fanghi derivanti dall’attività di escavazione di canali idrici e successivamente riutilizzati, la cui disciplina è contenuta nell’art. 184-quater, rispetto ai quali la dottrina ha evidenziato che l’inosservanza delle specifiche procedure previste dall’art. 184-quater in relazione ai rifiuti non può mai “ritenersi assorbita dal titolo abilitativo relativo all’impianto di smaltimento dei rifiuti”5 .
Ma, al di là di ogni considerazione formale, pure restando nell’ambito della definizione di <<rifiuto>>, non vi è alcun dubbio che, nel caso di specie, i fanghi di cui si discute sono certamente residui derivati da una prima, parziale depurazione, che ACEA ATO 5 invia ad altro impianto per ulteriore trattamento onde potersene <<disfare>> attraverso smaltimento o recupero, come prescrive la legge e come evidenzia la Cassazione, <<in condizioni di sicurezza per l’ambiente mediante stabilizzazione, riduzione dei volumi ed altri processi>>; e sono pertanto rifiuti a tutti gli effetti sin dall’inizio. Altrimenti si potrebbe arrivare a concludere che un rifiuto inviato ad un impianto di trattamento non è mai un rifiuto in quanto non vi è volontà di disfarsene; con la conseguenza che sarebbe, in tal modo, sottratto ai controlli ed alle garanzie previsti dalla legge per la gestione dei rifiuti a tutela della salute e dell’ambiente.
In conclusione, a nostro sommesso avviso, l’interpretazione delle norme sopra citate non può mai limitarsi all’aspetto formalistico ma deve, comunque, privilegiare la soluzione più cautelativa per la salute e per l’ambiente in tutti i casi in cui da un processo di produzione venga generato un “materiale” di cui il detentore vuole disfarsi, che sempre rifiuto resta anche se viene inviato in un impianto per trattamento e depurazione.
- Sentenza TAR Lazio 13 novembre 2023, n. 778↩︎
- Art. 183, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 152 cit., definisce rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi”.↩︎
- In giurisprudenza, cfr. anche per richiami, Cass. pen, sez. 3, n. 40687 del 13 settembre 2018 (Ud 25 giu 2018), Masi. In dottrina ci permettiamo rinviare al nostro Diritto penale ambientale, Pacini, Pisa 2022, pag 100 e segg.↩︎
- Cass. pen., sez. 3, 5 ottobre 2011 n. 36096↩︎
- ALBORINO, La disciplina ambientale dei fanghi di dragaggio, in www.lexambiente.it, 7 gennaio 2021↩︎