Abbazia di Sant’Antimo
L’abbazia di Sant’Antimo é situata in località Castelnuovo dell’Abate (circa 10 km da Montalcino) tra il poggio Castellari e il poggio d’Arnia, al margine ovest della Val d’Orcia, alle pendici del monte Amiata. È un’area caratterizzata da una fitta rete viaria originata dalla vicina via Francigena, la grande autostrada del mondo medievale, nata in contemporanea con le prime abbazie e collegata con raccordi all’Aurelia, alla Cassia adrianea ed alla Cassia vetus.
L’abbazia è posta in un territorio ricco di acque, caratteristica forse rintracciabile anche nell’etimo latino ad meata, ovvero “alle sorgenti”. Tale condizione è determinata dalla struttura geomorfologica del monte Amiata, antico vulcano, spento ormai da millenni, la cui sommità è costituita da formazioni poco permeabili cui sono sovrapposti terreni fessurati che ne fanno un grande serbatoio idrico. Molte infatti sono le sorgenti e quindi i torrenti che si diramano radialmente alla base del monte: il Fiora, l’Albegna, il Paglia.
Forse per questa ricchezza di acque nel 770 i Longobardi incaricarono l’abate Tao di costruire un monastero benedettino proprio in quella località, posta nel territorio di Montalcino, forse così denominato dal latino Mons Ilcinus da ilex “monte dei lecci”o da Mons Lucinus, da lucus (bosco sacro) “monte boscoso”, area che, dopo i disboscamenti del periodo romano, si era di nuovo inselvatichita e per la quale il bosco era la principale ricchezza economica che permetteva intensi rapporti commerciali con le zone limitrofe.
Fu allora quindi che, nella piccola valle del torrente Starcia, affluente dell’Orcia, dove scorreva anche il torrente Colombiolo, originato da una sorgente che ancora oggi esiste e che era utilizzata in passato dal monastero sia per la vita della comunità che per le attività agricole e l’allevamento, denominata Acqua Arcangela (nome che richiama il culto micaelico praticato dai Longobardi), fu realizzato il primo convento.
All’abate Tao fu affidata anche la gestione dei beni demaniali del territorio poiché l’abbazia, come usualmente in quell’epoca, sarebbe stata utilizzata anche come luogo di sosta dai pellegrini diretti a Roma, dai mercanti, dai soldati e dai messaggeri dei re.
Il nucleo primitivo della costruzione risaliva comunque al culto delle reliquie di Sant’Antimo di Arezzo, alla cui morte, nel 352, sul luogo del suo martirio nei pressi di una villa romana, era stato edificato un piccolo oratorio.
Secondo la tradizione, l’abbazia fu fondata nel 781 da Carlo Magno al ritorno da un pellegrinaggio a Roma, ma la sua esistenza è attestata per la prima volta da un documento del 29 dicembre 814 di Ludovico il Pio, figlio e successore di Carlo; con tale documento essa, arricchita di privilegi, divenne un’abbazia imperiale e l’abate fu insignito del titolo di Conte Palatino Consigliere del Sacro Romano Impero).
L’originaria abbazia benedettina, grazie anche alla sua posizione prossima alla via Cassia ed alla via Francigena, creata dai Longobardi e in seguito così chiamata perché “strada originata dai Franchi”, crebbe rapidamente, favorita da donazioni di imperatori, sovrani, grandi feudatari e dalle prerogative papali; nel tempo divenne una delle più ricche fondazioni monastiche toscane, crocevia religioso, politico e culturale. Numerosi territori e chiese furono posti sotto la sua giurisdizione: 96 tra castelli, terreni, poderi e mulini; 85 tra monasteri, chiese, pievi e ospedali, sparsi nei territori di Grosseto, Pistoia, Siena e Firenze. Il possedimento principale era però il castello di Montalcino, dove alloggiava il priore.
Nel 1118 il Conte Bernardo degli Ardengheschi cedette al figlio il suo lascito, “in toto regno Italico e in tota marca Tuscie” (ricordato come Carta Lapidaria dall’incisione sui gradini dell’altare maggiore della chiesa), affinché lo trasferisse all’abbazia. Questo permise di edificare una nuova chiesa, essendo quella antica divenuta ormai angusta per le crescenti necessità dell’abbazia,
Allora il precedente impianto romanico toscano della tradizione benedettina fu trasformato adottando come riferimento la grande abbazia benedettina di Cluny; …e Sant’Antimo prese la forma attuale. Alla metà del secolo XII la costruzione, a meno della facciata, era completata e l’influsso d’oltralpe era evidente per la pianta, senza transetto, per il deambulatorio a cappelle radiali dietro l’altare, che raccordava le due navate, e per l’inconsueta altezza della navata mediana.
Come spesso accade però, dal massimo splendore si passò rapidamente alla rovina, anche per effetto delle spese d’ampliamento. E Sant’Antimo cominciò a decadere.
Con l’avanzare dell’età comunale, l’abbazia perse alcuni dei propri possedimenti, tra cui il castello di Montalcino che, per la sua posizione strategica, divenne uno dei primi obiettivi delle mire espansionistiche di Siena: il 12 giugno 1212 con un accordo tra l’abate, la città di Montalcino e Siena, l’abbazia cedette un quarto del territorio di Montalcino a quest’ultima.
Alla fine del XIII secolo i beni di Sant’Antimo erano ormai decimati e il monastero si trovava in un avanzato stato di decadenza. Per sanare questa situazione di degrado, Papa Nicolò IV nel 1291 affidò l’abbazia ai Guglielmiti, adepti di San Guglielmo di Malavalle, eremita di Castiglione della Pescaia che aveva fondato un ordine benedettino riformato.
Nel 1462 papa Pio II (Enea Piccolomini di Pienza) la soppresse e i beni residui furono attribuiti alla diocesi di Montalcino e Pienza; allora per l’ultima volta nella Cappella Carolingia si riunì il capitolo.
Il Papa che a onore della sua famiglia aveva trasformato il paese natale, Corsignano, in una città rinascimentale, Pienza, dandole anche un vescovo, mise l’abbazia sotto la sua giurisdizione, conferendogli il titolo di Abate di Sant’Antimo che avrebbe mantenuto. fino al 1986, anno della soppressione della diocesi e della sua incorporazione nell’arcidiocesi di Siena.
Nel 1870 l’abbazia di Sant’Antimo era ormai abitata solo da un mezzadro, che alloggiava nell’appartamento vescovile; la cripta carolingia era utilizzata come cantina, la chiesa come rimessa agricola e il chiostro era lasciato agli animali.
Solo dal 1872 al 1873 e nel 1876 con campagne di restauro successive l’abbazia tornò allo stato attuale.
Nel 1979, l’abbazia venne data in custodia ad una comunità di Canonici regolari premostratensi che vi rimasero fino al 25 maggio 2015 quando ad essi subentrarono i benedettini olivetani, che però la lasciarono dopo poco più di un anno. Attualmente nessuna comunità monastica vi risiede e l’abbazia è gestita dall’arcidiocesi di Siena-Colle Val d’Elsa-Montalcino.
Dal punto di vista architettonico, la mole della chiesa abbaziale, opera mirabile dell’architetto lucchese Azzo dei Porcari, è orientata sull’asse est-ovest, con l’altare ad oriente; è visibile da tutta la conca e da lontano appare chiara sul verde del prato, per il travertino del paramento e per l’onice, proveniente dalle vicine cave di Castelnuovo, utilizzato nelle decorazioni, che le danno una luce e riflessi dorati.
Sul retro, sul lato sinistro, prima del giro dell’abside e delle absidiole, si alza l’imponente campanile in stile lombardo degli inizi dell’XI secolo (preesistente quindi alla chiesa attuale e per questo motivo attaccato alla chiesa stessa), caratterizzato da belle bifore e monofore che si aprono lungo le pareti. Anche l’abside all’esterno appare in tutta la sua magnificenza e solennità, coronata dal deambulatorio le cui tre cappelle radiali hanno, come sostegni del tetto, bellissime mensole scolpite con vari soggetti.
La facciata, molto semplice, è a salienti ed al centro della fascia centrale, sotto la bifora e la monofora ad arco a sesto acuto, si trova un ricco portale romanico, che doveva essere preceduto da un esonartece a quattro arcate ed ha ai lati due leoni in travertino che avrebbero dovuto sorreggere le due colonne del protiro, mai realizzato; sui fianchi dell’edificio invece vi sono due piccoli portali del IX secolo ornati da figure fantastiche e geometriche.
L’interno della chiesa, luminoso, è a tre navate che vanno restringendosi, divise da colonne e pilastri con capitelli di onice e travertino, bellissimi per la loro qualità e le figurazioni simboliche che presentano, ognuno differente dall’altro.
Sopra le arcate delle navate laterali con volte a vela corrono i matronei aperti da eleganti bifore, che terminano nella grande abside semicircolare articolata in cappelle a raggiera, che prende luce da una bifora.
Il presbiterio, nella parte interna all’abside, a parte il deambulatorio che corre intorno ad esso, collegato tramite sette archi a tutto sesto sorretti da colonne monolite, è di dimensioni assai ridotte, ma si protende ad occupare la navata centrale sino alla penultima arcata.
Al disotto dell’altare maggiore vi è una piccola cripta dove, addossato alla parete di fondo, vi è quello che era il sepolcro di Sant’Antimo, ricavato in un altare cavo all’interno, munito sulla parte anteriore di un foro rettangolare da cui si potevano vedere le reliquie.
Tra le opere d’arte di rilievo presenti all’interno della chiesa, sull’altare maggiore vi è il crocifisso ligneo di arte romanica, nella sottostante cripta l’affresco cinquecentesco della Pietà, nella tribuna destra e nella sagrestia resti di affreschi monocromi del XV secolo e lungo le navate i bellissimi capitelli di alabastro, già ricordati, con figurazioni differenti.
All’esterno, sulla destra, vi sono i resti del monastero dove vivevano i monaci che sette volte al giorno, dalle Lodi alla Compieta, si ritrovavano nella chiesa a pregare nei modi e nei ritmi del canto gregoriano. Del monastero è possibile riconoscere la sala dove si riuniva il Capitolo dei monaci, di cui rimangono però solo le belle trifore della facciata; qui, nelle riunioni che si svolgevano la mattina presto, si leggevano le biografie dei santi dal Martirologio Romano e la Sancta Regula; quindi si decideva quello che si sarebbe fatto durante la giornata. Rimane poi la Cappella Carolingia, ora adibita a sagrestia, di cui si vedono soltanto l’abside e la facciata a capanna, illuminata da una finestra a forma di lunetta che guarda su quello che era il chiostro: posto al centro del monastero, era costituito da un peristilio che si apriva sullo spazio centrale con delle bifore di cui non rimane nessuna traccia.
Al di sotto della Cappella Carolingia vi è la cripta dove quattro colonne sormontate da pulvini sostengono la copertura e dividono lo spazio in tre navate.
Sant’Antimo rappresenta uno splendido esempio delle numerose abbazie benedettine che nacquero nell’età di mezzo dopo la caduta dell’impero romano di Occidente e prosperarono durante l’età carolingia. I resti della chiesa abbaziale, anche se imponenti, danno però solo una pallida idea di quale fosse l’importanza e la reale funzione svolta dalle abbazie nel lungo periodo trascorso dalla caduta dell’impero romano fino a quando, con i Comuni e le Signorie apparvero nuove autorità in grado di governare e controllare i territori ormai in abbandono, divenuti terre di nessuno, senza legge, privi di qualsiasi regola da rispettare.
Proprio in quel periodo nacque, si affermò e poi si sviluppò la Regola di san Benedetto che dette vita ai primi conventi di monaci.
Il monachesimo cristiano era nato in Oriente nel IV secolo con le prime esperienze dell’anacoretismo e del cenobitismo: i monaci si consacravano a Dio nella preghiera, nella contemplazione, nella rigida disciplina di vita, nell’ascesi e nel completo distacco dal mondo.
Anche la Regola di San Benedetto, che codificò l’ideale monastico in un Prologo e 73 Capitoli, nacque dalla tradizione del monachesimo orientale, ma le comunità benedettine si distinsero da quelle orientali per le pratiche ascetiche più temperate ed una maggiore organizzazione. Infatti, mentre gli anacoreti del deserto o gli eremiti vivevano in solitudine assoluta, i monaci nei conventi benedettini vivevano, sì, in celle separate, ma affacciate su un unico chiostro, e condividevano la chiesa per la preghiera, ma anche la mensa ed il lavoro, ed erano vincolati al monastero, al suo ordinamento, ai suoi orari, nonché al territorio.
Le comunità benedettine non solo s’imposero ben presto tra le altre formazioni monastiche occidentali, divenendo il segno distintivo ed unitario della cristianità medievale nel suo complesso, ma per molti secoli esse furono per le popolazioni l’unico reale riferimento comune di unità culturale, sociale e politica
Le abbazie costituirono delle vere e proprie città monastiche, articolate intorno alla chiesa abbaziale e al chiostro, in cui i diversi ambienti che le costituivano, refettorio, dormitorio, cucina, aula capitolare, scriptorio, biblioteca, orto, erano adibiti a tutte le principali funzioni della vita comunitaria.
Questa notevole attività organizzativa dei monaci, che determinava anche l’operosità delle popolazioni che ad essi si riferivano, si sviluppò in un periodo in cui il territorio non si presentava come oggi lo vediamo, ma era una landa desolata e paludosa, resa arida sia dall’abbandono in cui erano state lasciate le terre dopo le invasioni barbariche sia per il clima più rigido che imperversava in quel periodo.
Anche la viabilità era ridotta ai minimi termini: la rete delle strade consolari romane era ormai quasi scomparsa e l’unica via percorribile rimaneva la cosiddetta via Francigena realizzata dai Longobardi.
Non esistevano più i numerosi e frequenti nuclei insediativi di grandi dimensioni del periodo romano, ma nelle campagne erano presenti solo rari insediamenti sparsi, condizionati dalla insalubrità dei luoghi e dalle scarse risorse alimentari, dove gli abitanti erano sempre in all’erta per gli eventuali visitatori in arrivo, spesso solo soldataglie in cerca di facili bottini, da torme di sbandati e da briganti.
In conclusione, il paesaggio era molto diverso da quello gradevole che oggi ammiriamo nelle foto, caratterizzato dall’armonia degli onnipresenti cipressi intercalati dagli olivi e dalle vigne.
In quel contesto solo le comunità benedettine, solidamente articolate, autonome e autosufficienti, costituirono concretamente il fulcro ed il baricentro dell’economia e della società: con la loro forza organizzatrice promuovevano le bonifiche e la coltivazione dei latifondi, incentivavano il lavoro e la fondazione di grange e, con i patti agrari, garantivano l’ampliamento dei possedimenti.
Nello stesso tempo, secondo la regola dettata dal fondatore “ora, lege, labora“, la lettura sapienziale dei testi biblici, la lectio divina, produsse un amore operoso per i libri che portò alla costituzione di meravigliose biblioteche; queste a loro volta tramandarono, con il lavoro svolto nei secoli negli scriptoria delle abbazie, un patrimonio antico di sapere, che costituisce oggi l’unico residuo salvato dai saccheggi, dalle guerre e dalle soppressioni.
Proprio grazie a queste abbazie benedettine, disseminate in Italia ed in tutta l’Europa dell’età di mezzo, comparvero i primi documenti del volgare, rappresentati in Italia dal cosiddetto Placito Capuano dell’anno 960, che dirimeva una lite per il possesso di alcuni terreni riportando una decisiva testimonianza: “Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti”; e dagli altri placiti cassinesi, risalenti a pochi anni dopo, nei quali si rileva la lenta trasformazione della lingua dal latino al volgare.
Nello stesso anno 960 a Subiaco, sul suolo italiano, fu stampato il primo libro uscito dai tipi e dai torchi impiantati da monaci tedeschi del monastero di Santa Scolastica.
Queste erano le attività svolte a Sant’Antimo, come negli altri monasteri benedettini, intorno all’anno 1000; la comune osservanza della Regula monachorum non impedì tuttavia lo svilupparsi di una varietà di ordinamenti, giustificati dalle differenze di tempi e di luoghi o finalizzati a ricondurre l’Ordine alla primitiva purezza in occasione dei ricorrenti rilassamenti della disciplina.
Fu così che a Cluny, a Camaldoli, a Vallombrosa, a Citeaux, a Monte Oliveto, a Santa Giustina di Padova e altrove, dal tronco dell’Ordo Sancti Benedicti (O.S.B) nacquero altre famiglie benedettine: l’Ordine Cluniacense, la Congregazione Camaldolese, quella di Vallombrosa, l’Ordine della Certosa e l’Ordine Cistercense fino al 1313 quando venne fondata la prima Congregazione dei Benedettini Olivetani e ancora nel 1408 con la riforma sorta presso l’abbazia padovana di Santa Giustina, a cui aderì nel 1501 l’abbazia di Montecassino e che prese quindi il nome di Congregazione Cassinese.
Quest’ultima riforma istituì un capitolo generale per la periodica elezione dell’abate. Allora i monasteri furono federati tra loro, reagendo alle degenerazioni del sistema della Commenda che aveva affidato a vita i monasteri ad abati commendatari estranei all’ordine e interessati più che altro alle rendite.
A queste congregazioni ne seguirono altre: la Congregazione di Monte Corona, riforma eremitica del movimento camaldolese, quella dei Cistercensi Riformati Trappisti, quella dei Benedettini Sublacensi e quella dei Cistercensi di Casamari.