Rifiuti, pezzi di ricambio e Cassazione. Qualche dubbio
di Gianfranco Amendola
Tutti quelli che si occupano di normativa ambientale sanno bene che la nozione di “rifiuto” è sempre stata fonte di incertezza sia in dottrina che in giurisprudenza. Tanto più in Italia dove per anni si sono susseguiti tentativi di sottrarre rifiuti al relativo ambito di applicazione, utilizzando fantasiosi espedienti terminologici quali “residui”, “materiali quotati in borsa”, “materie prime secondarie” ecc.; tutti severamente bocciati dalla Commissione UE e dalla Corte europea di giustizia1. E’ sufficiente ricordare in proposito che già nel primo testo normativo sui rifiuti (il DPR 915 del 1982), la definizione comunitaria di rifiuto era stata tradotta trasformando il verbo “disfarsi“ in “abbandonare”, per cui in Italia si radicava la convinzione che fosse rifiuto solo quello che non serve più a nessuno («abbandonato») e non quello che non serve più al detentore (che se ne «disfa», quindi, anche se può servire ad altri).
Oggi, tuttavia, ricalcando fedelmente la definizione comunitaria, l’art. 183, comma 1, lett. a) del D. Lgs 152/06 intende per “rifiuto” “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi”.
Ciò premesso, appare, peraltro evidente che, comunque, trattasi di definizione generica specie per quanto attiene il “disfarsi”. Non a caso, quindi, la Corte di giustizia europea è più volte intervenuta per fornire chiarimenti in merito, quasi sempre per vicende italiane, evidenziando che, partendo dal principio di precauzione, non sono consentite interpretazioni restrittive del termine <<rifiuto>>.
In proposito, sembra opportuno ricordare, in particolare, visto che attiene a quanto diremo appresso, che, secondo la CGCE, occorre sempre basarsi sulla figura del detentore e “occorre prestare particolare attenzione alla circostanza che l’oggetto o la sostanza di cui trattasi non abbia o non abbia più alcuna utilità per il suo detentore, sicché tale oggetto o tale sostanza costituirebbe un ingombro di cui egli cerchi di disfarsi ……Infatti, ove ricorra tale caso, sussiste un rischio che il detentore si disfi dell’oggetto o della sostanza in suo possesso con modalità atte a cagionare un danno ambientale, in particolare mediante abbandono, scarico o smaltimento incontrollati“, mentre, di converso, “non sarebbe in alcun modo giustificato assoggettare alle disposizioni della direttiva 2006/12, che mirano ad assicurare che le operazioni di recupero e di smaltimento dei rifiuti siano eseguite senza mettere in pericolo la salute umana e senza che vengano usati procedimenti o metodi che possano recare pregiudizio all’ambiente, beni, sostanze o prodotti che il detentore intende sfruttare o commercializzare in condizioni vantaggiose indipendentemente da una qualsiasi operazione di recupero……” 2; e che, sempre secondo la Corte europea, <<la nozione di “rifiuti” figurante all’art. 1 della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, .. … non deve essere intesa nel senso che essa esclude sostanze od oggetti suscettibili di riutilizzazione economica, neanche se i materiali di cui trattasi possono costituire oggetto di un negozio giuridico, ovvero di una quotazione in listini commerciali pubblici o privati >>3.
E’ in questo quadro generale che va collocata una recentissima sentenza della Cassazione relativa alla condanna di un commerciante imputato di avere effettuato una spedizione di rifiuti, realizzata attraverso l’importazione non autorizzata sul territorio nazionale di 14 casse contenenti parti usate di autoveicoli, prive della necessaria documentazione, effettuando in tal modo raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio o intermediazione di rifiuti, in assenza della necessaria autorizzazione. Ed era proprio la qualifica di “rifiuto” che veniva negata dai ricorrenti, trattandosi di parti di ricambio utilizzabili e aventi anche un valore economico4.
Respingendo il ricorso, la Suprema Corte evidenzia, in primo luogo, la “obbiettiva circostanza che si tratta di parti usate di autovetture ammassati alla rinfusa all’interno di numerose casse spedite alla società commerciale gestita dall’imputato e che questo intendeva a sua volta commercializzare nei paesi del Nord Africa e sulle quali non risultava essere stata eseguita alcuna operazione di rigenerazione, attività per la quale, in ogni caso, la impresa gestita dall’imputato neppure risulta avere le necessarie credenziali amministrative”; aggiungendo, subito dopo, che i veicoli fuori uso e i prodotti del loro smantellamento sono rifiuti ai sensi della voce “16 01” dell’allegato D alla parte quarta del dlgs n. 152 del 2006, richiamato dall’art. 184, comma 5, stesso decreto e che a norma dell’art. 184-ter comma 1, del medesimo testo normativo, un rifiuto cessa di essere tale solo quando è stato sottoposto a un’operazione di recupero e soddisfi i criteri e le condizioni in esso previsti.
Si tratta, in realtà, come ricorda la stessa Cassazione, di considerazioni già più volte svolte dalla stessa Corte la quale, da un lato, con riferimento alla circostanza dell’ammasso alla rinfusa, ha sempre messo l’accento sulla necessità di rifarsi sempre a “dati obiettivi che definiscano la condotta del detentore o un obbligo al quale lo stesso è comunque tenuto, quello, appunto, di disfarsene” 5, in quanto è assolutamente certo che, “secondo i principi generali ormai consolidati, debba ritenersi inaccettabile ogni valutazione soggettiva della natura dei materiali da classificare o meno quali rifiuti, poiché è rifiuto non ciò che non è più di nessuna utilità per il detentore in base ad una sua personale scelta ma, piuttosto, ciò che è qualificabile come tale sulla scorta di dati obiettivi che definiscano la condotta del detentore o un obbligo al quale lo stesso è comunque tenuto, quello, appunto, di disfarsi del suddetto materiale”6; e dall’altro, con riferimento ai materiali da demolizione, ha più volte precisato che essi “rientrano nel novero dei rifiuti in quanto oggettivamente destinati all’abbandono, l’eventuale recupero è condizionato a precisi adempimenti, in mancanza dei quali detti materiali vanno considerati, comunque, cose di cui il detentore ha l’intenzione di disfarsi; l’eventuale assoggettamento di detti materiali a disposizioni più favorevoli che derogano alla disciplina ordinaria implica la dimostrazione, da parte di chi le invoca, della sussistenza di tutti i presupposti previsti dalla legge”7.
Nel caso di specie, tuttavia, è la stessa Corte a riconoscere che si trattava di parti usate di autoveicoli che l’imputato voleva commercializzare nei paesi del nordafrica; e, quindi, in linea di principio ad esse potrebbe applicarsi non la disciplina sui rifiuti ma quella prevista per il commercio dei beni di occasione. Tesi che, tuttavia, viene respinta in quanto non risultava effettuata su questi oggetti alcuna operazione di recupero o di rigenerazione; e, pertanto, la Cassazione conclude che si tratta, comunque, sempre di rifiuti anche se ad essi può essere attribuita una qualche rilevanza economica.
Diciamo subito che anche queste affermazioni rientrano pienamente nell’ambito della pregressa giurisprudenza secondo cui la natura di rifiuto, una volta acquisita in forza di elementi positivi (oggetto di cui il detentore si disfi, abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi, quale residuo di produzione) e negativi (assenza dei requisiti di sottoprodotto, ai sensi dell’art. 184-bis, d. lgs. n. 152 del 2006), non vien certo perduta per la presenza di una qualche valenza economica per il cessionario del prodotto <<occorrendo, per contro, verificare “a monte” il rapporto tra il prodotto medesimo ed il suo produttore e, soprattutto, la volontà/necessità di questi di disfarsi del bene>>8.
Affermazioni confermate, da ultimo, in una recente sentenza in cui la Cassazione, decidendo su un caso della stessa specie, ha concluso che “la qualifica della cosa come rifiuto, in buona sostanza, preesiste, sia per le sue caratteristiche oggettive che per le espresse classificazioni-catalogazioni operate dal legislatore nazionale ed unionale, alle sue possibili vicende negoziali vietandone o condizionandone il commercio; altrimenti ragionando (e seguendo la tesi difensiva), il commercio di rifiuti escluderebbe in radice la natura di “rifiuto” dei beni oggetto di traffico sol perché l’acquirente vi trovi una qualche utilità, a prescindere dalla necessità delle operazioni di recupero necessarie alla cessazione della qualità di rifiuto stesso…”9.
Tutto chiaro, dunque? Noi qualche dubbio lo abbiamo. Intendiamoci, le conclusioni della Suprema Corte sono totalmente comprensibili in quanto si propongono -e concordiamo- di evitare situazioni in cui la esclusione dalla disciplina sui rifiuti possa provocare danni o pericoli per l’ambiente. Sotto questo profilo, peraltro, la giurisprudenza della Corte europea di Giustizia10 ha sempre chiarito – ed è bene ripeterlo- che “l’ambito d’applicazione della nozione di rifiuto dipende dal significato del termine <<disfarsi>> il quale va interpretato in base al principio generale che la politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela della salute e dell’ambiente ed è fondata sui principi, in particolare, della precauzione e dell’azione preventiva. Ne consegue che la nozione di rifiuto non può essere interpretata in senso restrittivo”; e, pertanto, in caso di dubbio, una “cosa” deve essere considerata rifiuto. Ma questo vale anche per un pezzo di ricambio perfettamente funzionante proveniente da un’auto usata? Tanto più se viene spedito in un altro paese per essere venduto? Nel caso di specie, peraltro, il ricorrente aveva chiesto di espletare una perizia per dimostrare, appunto, che i pezzi di ricambio erano funzionanti e non avevano bisogno di alcun intervento per essere reimpiegati. Perizia negata in quanto, tra l’altro, secondo la Cassazione il compito di accertare se erano rifiuti è “evidentemente di diretta competenza giurisdizionale ed esulante rispetto a quelli svolti dal consulente tecnico.”
Giunti a questo punto, forse è bene andare oltre il caso di specie, mettere da parte considerazioni ricorrenti e formali ed andare alla sostanza. Se, -come dice giustamente la Corte europea e ripete la Cassazione- per definire la nozione di “rifiuto” occorre aver riguardo alla persona del detentore e se la finalità è quella di evitare che egli si disfi dell’oggetto o della sostanza in suo possesso con modalità atte a cagionare un danno ambientale, appare evidente che deve trattarsi di un oggetto che per lui è solo un ingombro inutile che non utilizza (o non può o non vuole utilizzare) e da cui non può ricavare alcuna utilità né ora né in futuro. Ma di certo queste condizioni non ricorrono se si tratta di vendita di oggetto usato perfettamente funzionante. In questo caso, infatti, il detentore vuole disfarsi dell’oggetto non perché lo considera un ingombro inutile ma solo in quanto ritiene più conveniente (o, comunque, preferisce) venderlo ad altri anche se potrebbe continuare ad utilizzarlo ovvero tenerlo in attesa di un futuro, eventuale riutilizzo: potrebbe, ad esempio, venderlo per comprare l’ultimo tipo dello stesso oggetto. E di certo non si potrebbe parlare di un “rifiuto”.
E allora forse sarebbe opportuno, in caso di dubbio, non limitarsi a considerazioni di tipo formalistico e ripetitivo ma approfondire le situazioni in esame. E non solo in caso di vendita onerosa. Prendiamo, ad esempio, il caso di chi consegna ad un pescatore un suo pneumatico usato ed usurato, affinché lo usi come parabordo per la sua barca: con ogni evidenza l’oggetto non è più utile per la funzione originaria ma svolge comunque una diversa funzione utile. Tanto più che, se il detentore, invece di darlo ad altri, lo utilizza invece per la sua barca, non c’è neanche l’azione del “disfarsi”. Si tratta di un rifiuto? Quale pericolo può esservi per l’ambiente?
In ogni caso, comunque, resta valida la regola generale secondo cui, nei casi dubbi, spetta al detentore fornire eventualmente la prova che non si tratta di rifiuto.
Tornando al caso di specie, sembrano elementi rilevanti (anche se non decisivi) l’ammasso alla rinfusa e la classificazione fra i rifiuti dei veicoli fuori uso e dei prodotti del loro smantellamento ma ci sembra contraddittorio affermare che tali prodotti siano comunque dei rifiuti finché su di essi non sia stata effettuata una “rigenerazione ….tale da riportare detti beni allo stato originario ovvero ad una piena funzionalità previa riparazione degli stessi..”11, perché, a contrario, si potrebbe sostenere che non sono rifiuti se non necessitano di alcun intervento o riparazione e sono direttamente riutilizzabili12. Anche perché dalla sentenza non risulta che trattavasi di oggetti derivanti dallo smantellamento di veicoli fuori uso né che gli oggetti provenivano da un centro di raccolta, da veicolo privato delle targhe o da veicolo in evidente stato di abbandono, così come richiede l’art. 3, comma 2 del D. Lgs. 24 giugno 2003, n. 209 (Attuazione della direttiva 2000/53/CE relativa ai veicoli fuori uso) per considerare fuori uso un veicolo.
In conclusione, quello che ci preme mettere sommessamente in risalto è che, a prescindere dal caso di specie, a nostro avviso non ci si può limitare a considerazioni solo formali, generiche e ripetitive e che, come insegna la CGCE, “l’effettiva esistenza di un rifiuto va accertata alla luce del complesso delle circostanze, tenendo conto della finalità della direttiva e in modo da non pregiudicarne l’efficacia”.
- Sulle prime vicende storiche e per la citazione di precedenti, ci permettiamo rinviare al nostro Inquinamenti, EPC, Roma 1997 ed al nostro I rifiuti: normativa italiana e comunitaria, Il Sole 24 Ore-Pirola, Milano 1998. Da ultimo, per approfondimenti e citazioni, cfr. il nostro Diritto penale ambientale, Pisa 2022, pag. 101 e segg.↩︎
- Corte di giustizia europea (Prima Sezione) 12 dicembre 2013, cause riunite C‑241/12 e C‑242/12↩︎
- nn. 52 e 54 sentenza TOMBESI del 1997↩︎
- Cass. pen., sez. 3, 2 novembre 2022-2 marzo 2023, n. 8968, Senses in www.lexambiente.it, 22 Marzo 2023↩︎
- Cass. Pen., sez. 3, 13 settembre 2018 n. 40687, Masi in www.lexambiente.it↩︎
- Cass. Pen., sez. 3, 21 aprile 2017, n. 19206 in www.dirittoambiente.net↩︎
- Cass. Pen., sez. 3., cc 14 maggio 2015, n. 29084, Favazzo, in www.lexambiente.it↩︎
- Cass. Pen., sez. 3, 6 marzo 2020 n. 9052, Groza, in www.lexambiente.it. la quale aggiunge che <<opinare in termini diversi, al pari del ricorrente, comporterebbe dunque la facile creazione di pericolose aree di impunità, nelle quali numerose condotte oggettivamente integranti una fattispecie di reato ben potrebbero esser dissimulate da accordi – dolosamente preordinati – volti a privare il bene di una particolare qualità, ex se rilevante sotto il profilo penale, invero già “a monte” acquisita>>.↩︎
- Cass. Pen., sez. 3, 5 luglio 2022, n. 25633, Ndiaye, in www.lexambiente.it.↩︎
- Per approfondimenti e citazioni si rinvia al nostro Diritto penale ambientale, loc. cit.↩︎
- In proposito, cfr. CGCE, terza sezione, 18 dicembre 2007, Causa C-263/05, la quale evidenzia che per definire il “rifiuto”, la inclusione nel Catalogo europeo dei rifiuti non è decisiva, così come non è decisiva la esecuzione di una operazione “codificata” di smaltimento o di recupero.↩︎
- Si segnala, in proposito, che Cass. Pen., sez. 3, 7 gennaio 2013, n. 194, in www.lexambiente.it, trattando di auto d’epoca, ha affermato che per esse <<l’esame della natura delle auto non circolanti e dei pezzi di ricambio deve avvenire non nell’ottica di verificare quale sia la provenienza, bensì quale sia il loro impiego, con la conseguenza che i veicoli e i pezzi smontati potranno essere ricondotti alla categoria di “rifiuto” nei casi in cui non appaiano conformi alle finalità di restauro o di reimpiego in considerazione delle caratteristiche intrinseche e delle modalità di conservazione>>↩︎