Il rapporto tra il delitto di traffico illecito di rifiuti e quello d’inquinamento ambientale: un’ipotesi di connessione da concorso formale o da continuazione dei reati (Parte III).
di Giuseppe De Nozza
L’elemento psicologico del delitto d’inquinamento ambientale – la rilevanza anche del dolo eventuale (il caso esaminato da Cass. Pen., Sez. III, n. 26007 del 5.4.2019).
Il tema della connessione tra il delitto di cui all’art. 452 quaterdecies del c.p. e quello d’inquinamento ambientale presenta, tra gli altri, un profilo di particolare interesse in relazione a quelle situazioni concrete nelle quali il progetto illecito perseguito contempla come conseguenza – non voluta ma accettata della condotta di traffico dei rifiuti – l’alterazione significativa ma reversibile dell’ecosistema o della matrice ambientale.
Il riferimento è al profilo del dolo eventuale nel delitto d’inquinamento, l’onere della cui prova è decisamente meno gravoso di quello relativo alla prova del dolo specifico nel delitto di traffico.
Ancora una volta appare concludente il richiamo all’indirizzo della Suprema Corte, che, su questo specifico tema, si è pronunciata con la sentenza della Sez. III, n. 26007 del 5.4.2019.
Al vaglio della Corte veniva portato un provvedimento cautelare, questa volta di natura reale ed avente ad oggetto un impianto di depurazione delle acque urbane affidato in gestione ad una società.
Dell’impianto era stato disposto il sequestro preventivo perché, mediante l’utilizzo di una telecamera, la Polizia giudiziaria aveva documentato che i reflui fognari venivano, tramite un bypass, convogliati, senza alcun trattamento, in una condotta sottomarina e poi in mare.
Era dato condiviso da tutte le parti processuali che il bypass esistesse da tempo, così come era parimenti condiviso l’ulteriore dato in forza del quale la realizzazione del bypass preesisteva all’affidamento in gestione dell’impianto di depurazione alla società al centro dell’investigazione preliminare, società la quale, del resto, articolava la sua difesa proprio sull’elemento psicologico del reato, argomentandone l’insussistenza.
Ed è proprio da questo caso che la Corte prendeva le mosse per confermare la legittimità del provvedimento cautelare di sequestro preventivo, affermando che, ai fini della configurabilità del dolo del delitto di inquinamento, è sufficiente la volontà di abusare del titolo amministrativo di cui si ha la disponibilità, con la consapevolezza di poter determinare un inquinamento ambientale, trattandosi di fattispecie di reato costruita ricorrendo al dolo generico e, quindi, sussistente anche in caso di dolo eventuale.
Conseguente il principio di diritto formulato in forza del quale: “atteso che risulta…..che la società affidataria del servizio fosse perfettamente consapevole dell’esistenza del bypass ….., non rivestendo alcun rilievo la doglianza sul difetto dell’elemento psicologico del reato. Ed, invero, nell’ipotesi di inquinamento ambientale, nel caso in cui, come quello sub iudice, più siano i soggetti garanti della tutela del bene giuridico oggetto di tutela penale, ciascuno è per intero destinatario dell’obbligo di tutela impostogli dalla Legge ed, in particolare, ciascuno per andare esente da responsabilità neppur può invocare neppure l’esaurimento del rapporto obbligatorio, fonte dell’obbligo di garanzia e l’eventuale subingresso in tale obbligo di terzi, ove il perdurare della situazione giuridica si riconduca alla condotta colpevole dei primi”.
Gli strumenti dell’accertamento del delitto d’inquinamento ambientale – la necessità di acquisire tempestivamente il contributo di una scienza autorevole.
Una delle ragioni per le quali è parso concludente spendere delle riflessioni, oltre che sui principi di diritto elaborati dalla Suprema Corte, anche sulle peculiarità dei singoli casi che hanno generato quei principi, risiede in un dato di natura obiettiva comune alle pronunce oggetto di commento e, più in generale, alle pronunce della Suprema Corte sul delitto in trattazione e, cioè, quello che si tratta di pronunce rese sulla legittimità di provvedimenti cautelari personali o reali a carico di persona fisica e non di sentenze di primo o di secondo grado, pronunciate, quindi, a seguito dell’instaurazione del contraddittorio e sulla base di prove in grado di superare l’oltre ogni ragionevole dubbio.
Il terreno sul quale tali pronunce sono sopravvenute è quello della c.d. alta probabilità del cagionare una compromissione o un deterioramento significativo e misurabile dei beni tutelati e non quello decisamente più impegnativo della certezza, al di là di ogni ragionevole dubbio, della sussistenza di un fatto penalmente tipico e colpevole.
Su un terreno parimenti agevole per l’accusa è stata resa la sentenza della III Sezione della Suprema Corte n. 28732 del 27.4.2018, chiamata a vagliare la legittimità dell’ordinanza del Tribunale di Civitavecchia di conferma di un decreto di perquisizione e di sequestro emesso dalla Procura della Repubblica di quella sede giudiziaria, avente ad oggetto gli impianti idraulici utilizzati per ripetuti ed abusivi prelievi di acqua dal lago di Bracciano.
Al rigetto del ricorso proposto da chi quel sequestro aveva subito si addiveniva anche sulla base della formulazione del principio di diritto in forza del quale “ai fini dell’accertamento del reato d’inquinamento ambientale la verifica della sussistenza dei requisiti della compromissione o del deterioramento non richiede necessariamente l’espletamento di accertamenti tecnici specifici”.
Il principio veniva formulato a valle di un percorso argomentativo che val la pena di essere testualmente richiamato: “Sebbene non possa escludersi la necessità, in determinati casi, di verifiche anche volte ad accertare la sussistenza ed il grado di compromissione o deterioramento di singole matrici ambientali o di un intero ecosistema, possono senz’altro verificarsi situazioni nelle quali simili situazioni siano di macroscopica evidenza, come nel caso di distruzione di flora o fauna immediatamente percepibili, ovvero quando, una volta individuato un determinato contesto ambientale e le caratteristiche che lo contraddistinguono, possano poi direttamente apprezzarsi le conseguenze della condotta contestata. Ciò è avvenuto, ad esempio, nel caso esaminato nella più volte citata sentenza Catapano (n.d.r. Cass. Pen. Sez. III, n. 18934 del 15.3.2017), laddove si dava conto del fatto che il Tribunale, dopo aver dato atto del fondamentale ruolo svolto dalle oloturie nel contesto ambientale marino nel quale sono inserite…, aveva preso in considerazione, ai fini della sussistenza del fumus del reato, la quantità del pescato, la diffusione del fenomeno ed il significativo spostamento dei pescatori dalle zone storicamente frequentate, documentato dalle annotazioni di polizia giudiziaria e dalle attività di diretta osservazione. Si tratta, senza dubbio, di indagini non sempre agevoli, da effettuare anche tenendo conto delle condivisibili preoccupazioni espresse dalla dottrina, allorquando viene fatto notare che l’accertamento delle conseguenze della condotta potrebbe, in alcuni casi, comportare la necessità di un confronto con situazioni preesistenti, impossibile o, comunque, di difficile attuazione in zone industrializzate o fortemente antropizzate per le quali non sono disponibili dati di confronto, ma che non rendono certo indispensabile il ricorso a consulenze o perizie”.
Il riferimento è alla sentenza della III Sezione della Cassazione n. 18934 del 15.3.2017 (Catapano), nella quale l’evento di danno all’ecosistema era stato ritenuto perfezionato nel depauperamento della fauna in una determinata zona con una drastica eliminazione degli esemplari ivi esistenti e, cioè, delle oloturie.
Sullo sfondo del principio di diritto enunciato e del percorso argomentativo che ne ha sostenuto la formulazione è sin troppo semplice intravedere il tema del sofisticato rapporto tra il processo penale e le sue esigenze di accertamento da un lato, e la scienza e la tecnica dall’altro e, soprattutto, quello del come e con quali criteri selezionare la scienza e la tecnica da spendere nel processo penale.
Rapporto destinato a proiettarsi nel concreto delle situazioni nelle quali la prova al di là di ogni ragionevole dubbio dell’alterazione dell’ecosistema o della matrice non si presenti di “macroscopica evidenza”.
Microcosmo di situazioni nelle quali è più che ragionevole immaginare, soprattutto quando gli interessi messi in gioco dall’investigazione o dal processo siano di particolare importanza o facciano capo a soggetti economicamente “forti”, che sia proprio la Difesa della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato a “mettere in campo” il contributo della scienza o della tecnica e, quindi, a far valere la multifattorialità della causa dell’inquinamento ambientale o la mancanza del nesso di causalità tra la condotta e l’alterazione dell’ecosistema o della matrice o, addirittura, la sua irreversibilità.
Oggetto di riflessione è, quindi, se, nella prospettiva del superamento dell’oltre ogni ragionevole dubbio, la scienza o la tecnica o entrambe possano svolgere un ruolo in una moderna ed efficace strategia di contrasto al crimine ambientale e, se si, quale scienza e, cioè, solo quella condivisa dalla comunità scientifica o anche quella non avente tale caratteristica.
La scelta della scienza alla quale attingere è tema che involge direttamente la responsabilità del magistrato di volta in volta procedente ed è tema sul quale una scelta non all’altezza della complessità dell’accertamento può “costare” o il buon esito dell’investigazione preliminare o addirittura quello del processo.
Allorquando si fa riferimento all’accertamento ambientale ed alla sua sofisticazione e complessità, si fa evidentemente riferimento proprio al fatto che la lettura di un’alterazione dell’ecosistema o della matrice può imporre la necessità di acquisire anche più competenze tecniche.
Con ogni probabilità, il terreno di prova costituito dal nesso causale tra l’evento di danno e la condotta colpevole ed abusiva del soggetto inquinatore costituisce il banco di prova più duro da affrontare e superare nel lungo, laborioso e, con ogni probabilità, economicamente costoso sentiero da percorrere per giungere al risultato della prova della sussistenza del reato d’inquinamento ambientale.
La prova del nesso causale in genere impone accertamenti e valutazioni complesse ed articolate e tale prova è destinata ad imporre sforzi ricostruttivi ancor più impegnativi nella materia degli ecoreati, nella quale, almeno in termini statisticamente più significativi a voler valorizzare il dato esperienziale, l’inquinamento, con effetti reversibili o irreversibili sull’ecosistema, costituisce la risultante delle azioni od omissioni imputabili quasi mai ad una sola persona ma, molto più spesso, all’agire o all’omettere di un numero ampio e molteplice di soggetti, come nel caso di avvicendamento nella gestione o nella proprietà di una fonte inquinante di diverse società e, quindi, di diverse persone fisiche, in relazione alle quali appare necessario valutare il peso in termini eziologici del singolo contributo di ciascuna di esse.
Piuttosto di frequente, quindi, l’accertamento del nesso causale imporrà la ricostruzione del peso specifico di ciascun contributo causale, con l’ineludibile conseguenza che tale sforzo ricostruttivo diverrà sempre più complesso quanto più si sarà costretti a tornare indietro nel tempo, pur potendosi giovare tale sforzo di un importante contrappeso costituito dal raddoppio dei termini di prescrizione.
L’inquinamento ambientale, però, non è solo la risultante dell’azione combinata nel tempo, anche in un lungo lasso di tempo, di una molteplicità di soggetti ma costituisce, altresì, con pari frequenza statistica, il prodotto dell’agire combinato di una molteplicità di fonti inquinanti allocate nel medesimo spazio, l’una a poca distanza dall’altra e, molto spesso, parti di identici processi produttivi, gestiti ed alimentati ricorrendo spesso alla medesima materia prima.
A mero titolo esemplificativo, può essere d’ausilio sul punto richiamare le peculiarità di alcuni poli industriali del nostro Paese, caratterizzati dalla presenza di più impianti di produzione di energia elettrica, l’uno a qualche centinaio di metri o a qualche chilometro di distanza dall’altro, tutti alimentati con l’impiego del carbone o del petrolio e provare ad immaginare quanto possa essere davvero impegnativo e complicato, in punto di prova, misurare e stimare l’impatto di danno – irreversibile o meno – prodotto sulla qualità delle matrici ambientali aria, suolo e falda superficiale dalla dispersione nell’ambiente circostante sia delle polveri del carbone nella fase che precede l’avvio in caldaia della materia prima che delle ceneri leggere generate dal processo di combustione del carbone medesimo.
La complessità dell’accertamento del nesso causale è destinata a moltiplicarsi in tutte quelle aree del nostro paese contraddistinte dall’acronimo SIN e, cioè, nei siti di bonifica di interesse nazionale, istituiti, i primi, dalla Legge n. 426 del 1998 e, cioè, in quelle aree del nostro Paese, molto spesso estese per migliaia di ettari sulla terra e sul mare, nelle quali il livello di inquinamento ha assunto dimensioni ingentissime, da vera emergenza nazionale, avendo attinto tutte o quasi le matrici ambientali, sì da imporre bonifiche finanziabili, per l’enormità della spesa, solo con fondi pubblici.
Proprio in quelle aree, la prova del nesso causale è destinata ad approdare a picchi di ineguagliabile difficoltà perché proprio la concentrazione in un medesimo sito, l’una a poca distanza dall’altra, di molteplici fonti inquinanti, spesso espressione di medesimi processi produttivi, determina la diabolica situazione in cui ciascuna delle fonti inquinanti agisce da fattore di confondimento dell’origine dei danni generati dall’altra.
Non pare revocabile in dubbio che, nel disegno complessivo della riforma, il ruolo di fulcro e di baricentro possa e debba essere attribuito alle nuove fattispecie di inquinamento e disastro, costruite sia l’una che l’altra (quelle punite a titolo di dolo perché la variante colposa attribuisce rilevanza anche alla mera situazione di pericolo) come fattispecie di evento, nella specie l’alterazione reversibile od irreversibile dell’ecosistema e della matrice ambientale, in relazione alle quali, quindi, è da ritenersi imprescindibile la prova del nesso causale diretto ed immediato, anche solo in termini di concausa, tra l’evento di inquinamento e la condotta colpevole ed abusiva del soggetto inquinatore.
Non è rimasta del tutto estranea al Legislatore della riforma la tecnica di costruzione dell’illecito penale imperniata sull’attribuzione di rilevanza penale a condotte che, indipendentemente ed ancor prima del fatto che abbiano cagionato un evento, assurgono a reato perché, in astratto od in concreto, pericolose e, quindi, idonee a mettere in pericolo il bene ambiente, come avvenuto nel caso delle fattispecie di cui all’art. 452 sexies, con la quale si è tipizzata la condotta di traffico ed abbandono di materiale ad alta radioattività, e di quella di cui all’art. 452 quinquies.
Ed è più che ragionevole ritenere che la costruzione della fattispecie da ultimo richiamata come reato non di evento ma di condotta, non di danno ma di pericolo astratto o concreto, produca un riverbero sul terreno della prova degli elementi costitutivi del reato, dispensando l’interprete e, soprattutto, il magistrato da lunghi e faticosi sforzi ricostruttivi della catena causale.
La complessità dell’accertamento del danno all’ambiente impone, a parere di chi scrive, quindi, la necessità per il magistrato di “munirsi” tempestivamente del sostegno e della collaborazione della scienza e della tecnica e di creare le condizioni perché possa materializzarsi l’osmosi dei dati e delle informazioni tra l’Organo di polizia giudiziaria ed il consulente tecnico, facendosi fatica ad immaginare profili dell’accertamento che non involgano contestualmente la necessità di accertare che un determinato fatto ha avuto luogo nonché quella di accertare il se e la misura della perturbazione al bene ambiente arrecata da quel fatto così come accertato.
La “tempestività” nella scelta del sostegno di una scienza e di una tecnica“autorevole” può, invece, essere decisiva nel creare le condizioni perché la persona imputata del delitto di inquinamento ambientale valuti conveniente il ricorso ad un rito alternativo.
Valga, in proposito, un richiamo, a mero titolo esemplificativo, ad uno dei casi esaminati nel corpo della presente trattazione e, cioè, a quello relativo all’avvenuto riempimento di una cava con centinaia di migliaia di metri cubi di rifiuti speciali anche pericolosi e, cioè, al caso sul quale si è pronunciata la Terza Sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 50018 del 6.11.2018.
In un caso del genere, vi è da riflettere su quanto si sarebbe complicato, ragionando in una prospettiva di superamento dell’oltre ogni ragionevole dubbio, l’onere probatorio del Pubblico Ministero che avesse proceduto alla contestazione del delitto d’inquinamento ambientale senza preoccuparsi di accertare, ricorrendo ad una consulenza tecnica, se ed in che misura l’accertato smaltimento illecito di centinaia di migliaia di metri cubi di rifiuti avesse determinato il superamento delle CSC nelle matrici ambientali suolo e sottosuolo.
Vi è da riflettere su quale percorso sarebbe stato necessario intraprendere per provare, in un caso del genere e nella prospettiva del superamento dell’oltre ogni ragionevole dubbio, l’autonomia concettuale e strutturale del delitto in questione rispetto al reato contravvenzionale di cui al comma 3 dell’art. 256 del TUA.
In altri termini, su come provare la messa in discussione della struttura o della funzione della matrice senza fare ricorso alla scienza ed alla tecnica nonché ad una misurazione di tale “messa in discussione” saldamente agganciata al superamento di limiti legislativamente fissati, soprattutto nell’ottica proprio della “significatività”, parametro che richiama il concetto di misura.
La necessità dell’instaurazione del contradditorio sin dalla fase dell’investigazione preliminare ed il peso specifico notevolissimo rivestito dalla scienza e dalla tecnica costituiscono, a parere di chi scrive, i connotati salienti dell’investigazione preliminare destinata al contrasto del crimine ambientale, connotati che valgono a conferire a questa tipologia d’investigazione autonomia spiccata rispetto alle altre tipologie d’investigazione.
Il delitto di morte o di lesioni come conseguenza non voluta del delitto d’inquinamento ambientale.
Il tema è quello dell’art. 452 ter del c.p. e, cioè, del caso in cui dal compimento di una condotta d’inquinamento ambientale derivino, come conseguenza non voluta dal reo, lesioni personali con prognosi superiore a venti giorni, lesioni gravi o gravissime o la morte di una o più persone o addirittura entrambe le evenienze.
Al ricorrere dell’una o dell’altra delle evenienze o di entrambe, la cornice edittale del delitto di inquinamento ambientale subisce inasprimenti via via progressivi.
Si tratta di variante del delitto d’inquinamento sulla cui natura giuridica sono state proposte letture di diversa ispirazione.
Secondo un primo orientamento si tratterebbe di un’ipotesi di delitto aggravato dall’evento morte o lesioni, costruito sulla falsariga dell’art. 586 del c.p., con il precipuo scopo di inasprire il trattamento sanzionatorio tutte le volte in cui la proiezione dell’offesa al bene tutelato si dilata sino a colpire anche la vita o l’incolumità fisica delle persone. 1
Secondo un più recente orientamento, invece, potrebbe essere ragionevole ipotizzare che non si sia in presenza di una fattispecie autonoma di reato ma, al più, di una serie di circostanze aggravanti. 2
A sostegno del primo militano il fatto che la morte e/o le lesioni come conseguenza non voluta siano inserite in un autonomo corpo normativo, quello dell’art. 452 ter del c.p., avente un autonomo nomen juris, caratterizzato da pene autonomamente individuate ma, soprattutto, il dato obiettivo della consegna al secondo comma dell’art. 452 bis del c.p. delle circostanze aggravanti del delitto in trattazione. 3
A sostegno del secondo la circostanza che dell’art. 452 ter del c.p. il legislatore non abbia fatto menzione né nel catalogo dei reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti e delle società né in materia di confisca né in quella del raddoppio dei termini di prescrizione, circostanza che può trovare una ragionevole giustificazione solo nella scelta di configurare l’art. 452 ter del c.p. come aggravante del delitto d’inquinamento ambientale.4
Quale che sia la natura giuridica dell’art. 452 ter e, cioè, quella di circostanza aggravante suscettibile di bilanciamento o di delitto aggravato dall’evento, sottratto in quanto tale al giudizio di bilanciamento, un ulteriore dato merita di essere evidenziato e, cioè, che una previsione di analogo contenuto non è stata introdotta con riferimento al reato di disastro ambientale, che pure, più dell’inquinamento ambientale, pare poter proiettare gli effetti ben oltre il bene giuridico tutelato e, cioè, ben oltre il danno alla matrice ambientale o all’ecosistema. 5
In ipotesi il vuoto di tutela in relazione al delitto di disastro ambientale potrebbe rivelarsi più apparente che reale, sol che si tenga conto che il comma II dell’art. 452 quater, n. 3, configura il disastro ambientale anche al ricorrere di un’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo. 6
Potrebbe, quindi, ragionevolmente ipotizzarsi che lo spazio oggettivo di applicazione della fattispecie in commento copra quelle situazioni nelle quali, pur essendosi proiettata l’azione offensiva ben oltre il bene tutelato, non si sia in concreto radicata l’offesa o la messa in pericolo della pubblica incolumità nel significato che a questo termine ha univocamente assegnato il comma II, n. 3, della citata disposizione e tanto benché alla condotta d’inquinamento ambientale abbia fatto seguito la morte o le lesioni anche in danno di più persone.
Il reato previsto dall’art. 452 bis del c.p. e la responsabilità amministrativa degli enti e delle società.
Il comma VIII dell’art. 1 della Legge 22 maggio 2015, n. 68 ha profondamente inciso il tessuto normativo dell’art. 25 undecies del Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231, inserendo nel catalogo dei reati presupposto della responsabilità amministrativa la gran parte dei delitti contro l’ambiente ed, in particolare, il delitto di cui all’art. 452 bis del c.p.
Lo statuto della responsabilità amministrativa con reato presupposto il delitto in questione è stato disegnato dal legislatore del 2015 dosando la tipologia e la misura delle sanzioni in rapporto alla gravità via via crescente dei fatti di alterazione dell’ecosistema e della matrice ambientale.
Partendo dalla scelta fatta per la forma di alterazione meno grave e, cioè, quella commessa con colpa (si tratta dell’ipotesi di cui alla lett. c) del comma I dell’art. 25 undecies), l’unica sanzione prevista è quella di natura pecuniaria, fissata in una cornice che va dalle duecento alle cinquecento quote, sanzione da applicarsi sia nel caso in cui si sia accertato che l’alterazione sia stata reversibile sia nel caso in cui, invece, il danno all’ambiente abbia assunto il carattere dell’irreversibilità.
Trattamento uniforme che genera qualche perplessità sol che si consideri la diversa consistenza dell’offesa all’interesse protetto che caratterizza i due reati presupposto e che potrebbe far sorgere il legittimo sospetto che situazioni diverse siano state trattate in modo uniforme, in danno del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione.
Tale considerazione acquisisce ancor più consistenza ove si tenga conto che un trattamento uniforme è previsto anche e soprattutto in relazione alla responsabilità penale della persona fisica.
In caso, invece, di accertata commissione del delitto di cui all’art. 452 bis del c.p., alla sanzione pecuniaria si salda, in forza del comma I bis del citato art. 25 undecies, anche la sanzione interdittiva tra quelle previste dall’art. 9 del Decreto n. 231 del 2001, che non potrà spingersi come durata oltre l’anno (e senza alcuna predeterminazione nel minimo), in deroga al comma II dell’art. 13 del citato Decreto, che, in chiave generale, prevede per le sanzioni interdittive una durata minima non inferiore a tre mesi ed una durata massima non superiore a due anni.
La mancata inclusione nel catalogo della fattispecie di reato di cui all’art. 452 ter del c.p. determina quale conseguenza la non configurabilità della responsabilità amministrativa nel caso in cui da uno dei fatti previsti dall’art. 452 bis del c.p. derivi, come conseguenza non voluta dal reo, la lesione personale o la morte di una o più persone o entrambe queste evenienze.
Sempre che non si radichi o prevalga quell’indirizzo interpretativo secondo il quale la norma da ultimo citata si limita a prevedere circostanze aggravanti del delitto d’inquinamento ambientale, suscettibili di essere “recuperate” in chiave di previsione inespressa di responsabilità amministrativa da parte del Legislatore mediante il richiamo nel catalogo dei reati presupposto della sola fattispecie base di cui all’art. 452 bis del c.p. 7
In caso, invece, di accertata alterazione irreversibile e, quindi, di disastro, oltre alla sanzione pecuniaria fissata in una cornice da quattrocento ad ottocento quote, si salda la sanzione interdittiva applicabile con l’intervallo di tempo previsto in chiave generale per tutte le tipologie di sanzioni interdittive dal citato art. 13 del Decreto.
In caso, infine, di accertata esistenza di un’associazione per delinquere diretta, in via esclusiva o concorrente, alla commissione dei delitti in questione, la sanzione pecuniaria subisce un sensibile inasprimento andandosi a posizionare in una cornice compresa tra le trecento e le mille quote, senza previsione, in questo caso, della comminatoria anche della sanzione interdittiva.
Come scritto in altra parte della presente relazione, quello dell’esaustività ai fini di un moderno ed efficace contrasto al crimine ambientale del catalogo dei reati presupposto della responsabilità amministrativa è stato terreno sul quale ha preso posizione il Procuratore Generale della Corte di Cassazione8, parlando di un “disallineamento normativo” meritevole di una riflessione da parte del Legislatore in prospettiva di una eventuale riforma.
In quel caso si faceva riferimento al delitto d’impedimento del controllo che non è entrato a far parte di quel catalogo, così come di quel catalogo parte della dottrina ha propugnato un ulteriore arricchimento con l’introduzione anche del delitto di omessa bonifica di cui all’art. 452 terdecies 9, delitto che, al pari di quello di impedimento del controllo, non ha, quindi, idoneità normativa a fungere da delitto presupposto di responsabilità amministrativa.
La confisca ed il delitto di inquinamento ambientale.
Il delitto in esame appartiene al novero di quelli per i quali l’art. 452 undecies del c.p. prevede, in caso di condanna o di applicazione della pena ex art. 444 del c.p.p., la confisca delle cose che costituirono il prodotto o il profitto del reato o che servirono alla commissione del medesimo, fatto salvo il caso in cui tali cose appartengano a persona estranea al reato.
Tale regime di confisca, che contempla anche quella per equivalente, non è stato, però, previsto per le ipotesi di inquinamento con morte o lesioni come conseguenza non voluta, di inquinamento ambientale colposo e di pericolo di inquinamento, anche in tal caso materializzandosi, come conseguenza della scelta del legislatore, una situazione di “disallineamento normativo” meritevole di riflessione in prospettiva de iure condendo.
- MOLINO P., op. già cit., nonché RUGA RIVA C., I nuovi ecoreati. Commento alla Legge 22 magio 2068, n. 15, op. già cit.↩︎
- RAIMONDO M., “La responsabilità degli enti per i delitti e le contravvenzioni ambientali: Godot è arrivato?”, p. 28 e ss., pubblicato su Diritto Penale contemporaneo.↩︎
- RUGA RIVA C., I nuovi ecoreati. Commento alla Legge 22 magio 2068, n. 15, op. già cit.↩︎
- RAIMONDO M., op. già cit.↩︎
- MOLINO P., op. già. cit.↩︎
- MOLINO P., op. già. cit.↩︎
- RAIMONDO M., op. già cit.↩︎
- SALVI G., op. già cit.↩︎
- RAIMONDO M., op. già cit.↩︎