Il rapporto tra il delitto di traffico illecito di rifiuti e quello d’inquinamento ambientale: un’ipotesi di connessione da concorso formale o da continuazione dei reati (Parte I).
di Giuseppe De Nozza
Quello della connessione tra il delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti ed il reato di cui all’art. 452 bis del c.p. è tema di straordinaria complessità sia sotto il profilo interpretativo che sotto quello più squisitamente applicativo. 1
È tema che pone all’ordine del giorno di chi è chiamato ad applicare le norme vigenti valutazioni che si proiettano sul terreno degli ecosistemi, della loro struttura e funzione, della misura del danno ad essi arrecato dalla condotta di traffico e, quindi, valutazioni che chiamano in causa l’analisi dell’intero microcosmo normativo costituito dalla disciplina del rifiuto e della sua gestione.
In quel microcosmo una posizione centrale ha assunto, da tempo, il concetto di matrice ambientale e, più di recente, a seguito dell’entrata in vigore della Legge 22 maggio 2015, n. 68, anche quello – più sofisticato – di ecosistema.
Il tema in trattazione richiama quel variegato e complesso spettro di situazioni concrete nelle quali dal compimento di una condotta di traffico illecito discenda come conseguenza, anche non voluta, il danno all’ecosistema o alla matrice ambientale.
I molteplici profili di complessità del tema iniziano ad innestarsi nel momento in cui si è chiamati a tipizzare il danno, a misurarne l’entità e l’estensione, ad accertarne la reversibilità o meno, valutazioni che conducono o possono condurre ad approdi interpretativi differenti sul tema, innanzitutto, della rilevanza penale del fatto di danno accertato e, poi, sul tema di quale rilevanza penale, se quella descritta nella fattispecie di disastro o quella descritta nel delitto d’inquinamento ambientale o, infine, quella descritta nel reato contravvenzionale previsto dall’art. 257 del TUA.
Il tema della connessione tra i due delitti involge la necessità di fissare i confini tra le diverse fattispecie richiamate o, più semplicemente, il limite inferiore e superiore di ciascuna delle tre fattispecie richiamate, che appaiono essere la proiezione normativa di un danno all’ambiente che è stato tipizzato con forme di aggressione via via sempre più gravi, sino a giungere allo stadio finale del danno irreversibile.
Ma ancor prima involge la necessità di riempire di contenuto i concetti di matrice ambientale e di ecosistema, perché intorno ad essi ruotano, rispettivamente, la riforma degli ecoreati e la parte quarta del TUA, il cui Titolo primo è dedicato alla disciplina della gestione del rifiuto mentre il secondo alla bonifica dei siti contaminati.
Su un articolato normativo di straordinaria ricchezza e complessità precettiva è stato, infatti, innestato, a poco meno di dieci anni dalla sua entrata in vigore, il novum normativo costituito dalla riforma degli ecoreati ed, in particolare, dal delitto d’inquinamento ambientale.
Termini o concetti quali matrice ambientale, contaminazione o inquinamento, infatti, preesistevano alla riforma degli ecoreati e facevano parte di un lessico legislativo, quello del TUA, che non si era sottratto all’apprezzabile sforzo di definirne il contenuto e l’essenza.
La definizione di matrice ambientale e di inquinamento o di contaminazione potenziale ed in atto.
La definizione di matrice ambientale rimanda all’art. 240, lett. a), del TUA, che, nel definire “il sito”, lo individua “in un’area o porzione di territorio, geograficamente definita e determinata, intesa nelle diverse matrici ambientali (suolo, materiali di riporto, sottosuolo ed acque sotterranee) e comprensiva delle eventuali strutture edilizie ed impiantistiche presenti”.
La conferma che siano da classificare matrici ambientali il suolo, il sottosuolo e le acque sotterranee può cogliersi nell’art. 257 del medesimo Testo unico, che, nel tipizzare il reato di omessa bonifica di un sito contaminato, seleziona quale condotta penalmente rilevante propria quella dell’aver inquinato le matrici ambientali e, cioè, il suolo, il sottosuolo, le acque superficiali e quelle sotterranee e del non aver provveduto alla bonifica del sito in conformità al progetto approvato dall’autorità competente nell’ambito del procedimento di cui agli art. 242 e ss.
Le matrici ambientali costituiscono uno dei due oggetti della tutela penale del delitto d’inquinamento ambientale, che, in una delle due varianti previste dall’art. 452 bis del c.p., si configura, infatti, proprio allorquando vi è compromissione o deterioramento (significativo e misurabile) del suolo, del sottosuolo e delle acque, aggiungendovi la matrice aria.
Sempre nel citato art. 240 si leggono due ulteriori definizioni che appaiono essenziali nell’individuazione del limite inferiore di applicazione della fattispecie del delitto d’inquinamento ambientale e, cioè, quella di sito potenzialmente contaminato e di sito contaminato.
In forza della lettera d) della norma richiamata, il sito è potenzialmente contaminato allorquando “uno o più valori di concentrazione delle sostanze inquinanti rilevati nelle matrici ambientali risultino superiori ai valori di concentrazione soglia contaminazione (CSC), in attesa di espletare le operazioni di caratterizzazione e di analisi del rischio sanitario ed ambientale sito specifica, che ne permettano di determinare lo stato o meno di contaminazione sulla base delle concentrazioni soglia di rischio”.
In forza della successiva lett. e), è contaminato, invece, il sito nel quale “i valori di concentrazione soglia di rischio (CSR), determinati con l’applicazione della procedura di analisi di rischio di cui all’allegato 1 della parte quarta del presente decreto e sulla base dei risultati del piano di caratterizzazione, risultino superati”.
Il supero delle concentrazioni soglia di contaminazione in uno o più inquinanti presenti nella matrice indizia, quindi, lo stato di potenziale contaminazione del sito, sito che, invece, è tecnicamente contaminato quando, accertata la presenza di uno o più superi delle CSC, si acclari, tramite gli strumenti della caratterizzazione e dell’analisi di rischio sito specifica, l’esistenza anche di un rischio sanitario ed ambientale, la cui esistenza determina l’obbligo della messa in sicurezza e della bonifica di quel sito ai sensi della lett. c) del citato art. 240.
Vi è più di una ragione per ritenere che il legislatore del TUA abbia utilizzato i termini “contaminazione in atto” ed “inquinamento” come sinonimi.
La prima è quella che rimanda alla lettera r) della norma in questione, che, nel definire il concetto d’inquinamento diffuso, lo tipizza proprio nella contaminazione delle matrici ambientali determinata da fonti diffuse e non imputabili ad una singola origine.
La seconda è il tenore testuale del citato art. 257, che seleziona la condotta penalmente rilevante utilizzando un doppio binario, da un lato quello dell’aver procurato l’inquinamento delle matrici per effetto del superamento delle concentrazioni soglia di rischio, dall’altro quello dell’aver omesso di bonificare il sito contaminato in conformità al progetto di bonifica approvato.
L’approdo di tale percorso di valutazione dei dati normativi è che l’inquinamento della matrice ambientale è da ritenersi materializzato allorquando la concentrazione di uno o più inquinanti nella matrice ambientale abbia determinato l’insorgenza di una situazione di rischio sanitario oltre che ambientale.
Solo indiziato è da reputarsi, invece, l’inquinamento della matrice allorquando si sia acclarata in essa solo la presenza di uno o più inquinanti in valori di concentrazione superiori al limite massimo previsto dal TUA e, nella specie, dalla Tabella 1 dell’allegato 5 del titolo quinto della parte quarta del Testo Unico.
Vi è da chiedersi se un inquinamento avente tali caratteristiche abbia assunto, in costanza di vigenza dell’art. 452 bis del c.p., la forma e la sostanza di un vero e proprio delitto ambientale o se, al contrario, l’inquinamento della matrice ambientale rilevante ai sensi dell’art. 452 bis del c.p. imponga l’accertamento di caratteristiche ulteriori rispetto a quelle costituite dal mero supero delle concentrazioni soglia di contaminazione o di quelle di rischio ed, in quest’ultimo caso, quale sia la linea di confine tra l’area del penalmente rilevante di cui all’art. 452 bis del c.p. e quella alla quale ricondurre tutte quelle situazioni in concreto nelle quali all’accertato inquinamento del sito non segue la sanzione penale ma “solo” l’obbligo giuridico della messa in sicurezza e della bonifica di esso ed eventualmente la sanzione penale alternativa prevista dall’art. 257 per l’ipotesi in cui la bonifica del sito abbia avuto luogo non in conformità al progetto approvato dall’autorità competente.
È il tema del limite inferiore della tutela penale predisposta dall’art. 452 bis del c.p., limite, scesi al di sotto del quale, non vi è più spazio per l’applicazione della sanzione penale, se non nelle residuali ipotesi previste dall’art. 257.
Una situazione d’inquinamento di una o più matrici causalmente riconducibile ad una condotta di traffico illecito di rifiuti che mancasse delle caratteristiche necessarie per superare verso l’alto quel limite finirebbe per esaurire i suoi effetti sul piano angusto della messa in sicurezza e della bonifica del sito inquinato, eventi del tutto eventuali e, soprattutto, di lunga prospettiva.
Può dirsi ormai consolidato nella giurisprudenza della Corte di Cassazione l’indirizzo in forza del quale l’inquinamento tipizzato dall’art. 452 bis del c.p. impone l’accertamento in concreto di caratteristiche ulteriori rispetto al mero accertamento del supero delle concentrazioni soglia di contaminazione o di rischio, richiedendosi l’alterazione dell’originaria consistenza della matrice ambientale, l’alterazione, cioè, della struttura o della funzione della matrice, che deve distinguersi per significatività, misurabilità e reversibilità. 2
Ma, come si è scritto, l’oggetto della tutela penale introdotta con la nuova fattispecie d’inquinamento ambientale non si esaurisce nell’alterazione della matrice ambientale, essendo stata predisposta identica tutela anche per contrastare l’alterazione degli ecosistemi, quella della biodiversità ed, infine, quella della flora e della fauna.
La compiuta fissazione, quindi, del limite inferiore della tutela penale dell’art. 452 bis del c.p. impone la definizione del concetto di ecosistema.
La definizione di ecosistema quale ulteriore oggetto della tutela penale del delitto di inquinamento ambientale.
La Legge 22 maggio 2015, n. 68, non definisce il significato del termine ecosistema e, soprattutto, facendo uso dell’articolo indeterminativo “un”, pare chiaramente lasciar intendere che di ecosistemi ne ritiene esistenti più di uno.
Una definizione del termine ecosistema non si rinviene, tra l’altro, in altra fonte normativa primaria (di ecosistema si legge una definizione nell’allegato 1 del D.P.C.M. del 27 dicembre del 1988, in tema di norme tecniche per la redazione degli studi di impatto ambientale, ove si definisce l’ecosistema un complesso di componenti e fattori fisici, chimici e biologici tra loro interagenti ed interdipendenti, che formano un sistema unitario ed identificabile per propria struttura, funzionamento ed evoluzione temporale) e sul tema può annoverarsi, per quanto di conoscenza, un solo precedente della Corte di Cassazione3, che a quel termine attribuisce il significato di “ambiente biologico naturale, comprensivo di tutta la vita vegetale ed animale ed anche degli equilibri tipici di un habitat vivente”.
Quelle richiamate sono definizioni equivalenti di ecosistema, che rimandano alla definizione che dell’ecosistema ha dato l’ecologia, la quale lo ha definito come “una porzione di biosfera (ovvero l’insieme della idrosfera, atmosfera e litosfera delimitata naturalmente e, cioè, il c.d. ecotopo o componente abiotica) in cui abitano gli organismi animali e vegetali che interagiscono tra di loro e con l’ambiente che li circonda (e, cioè, la c.d. biocenosi o componente biotica)”, termine coniato dall’ecologo inglese A. Tansley nel 1935.
La necessità di riempire di contenuto il termine ecosistema, facendo ricorso alla comune accezione, è stata ribadita dalla Suprema Corte di Cassazione all’indomani dell’entrata in vigore della Legge n. 68 del 20154.
L’ecosistema, secondo l’ecologia, è l’unita fondamentale dei sistemi ecologici e ne costituisce la prima e più elementare cellula, che lascia spazio, al livello immediatamente più elevato, al c.d. “bioma”, che è una struttura formata da più ecosistemi, ed, infine, alla biosfera, che, a sua volta, è una struttura alla cui formazione concorrono più biomi.
La fattispecie d’inquinamento ambientale presidia, quindi, ogni singolo ecosistema, senza distinzioni di sorta tra le diverse tipologie esistenti e, quindi, sia quelli naturali (e, cioè, gli ambienti che si sviluppano in maniera naturale lungo una successione ecologica) sia quelli artificiali (e, cioè, quelli derivanti da modificazioni antropiche).
Nonostante le diversità e le peculiarità che possono caratterizzare e distinguere tra di loro i molteplici ecosistemi, l’ecologia è piuttosto concorde nel ritenere sussistenti più tratti comuni nelle cellule di base del sistema ecologico e, nella specie, il loro essere sistemi aperti, interconnessi e stabili.
L’ecosistema è aperto perché scambia con l’esterno flussi di energia, materia ed informazione; è interconnesso perché interagisce con altri ecosistemi ed è stabile perché naturalmente dotato della capacità di autoregolazione, della capacità, cioè, di tornare ad uno stato di equilibrio dopo un disturbo temporaneo, in un lasso di tempo e con una velocità (la c.d. resilienza) che variano a seconda della complessità del singolo ecosistema e della natura e della forza del fattore di perturbazione.
Indipendentemente dall’esistenza e dall’impatto su di esso di un fattore esterno, nella specie di un agente inquinante, nel suo fisiologico funzionamento l’ecosistema si caratterizza per un equilibrio dinamico, perché l’interazione quotidiana tra la componente biotica e quella abiotica definisce di quell’equilibrio contenuti che, seppure impercettibilmente, sono oggetto di continue modificazioni nel tempo.
La capacità di autoregolazione e, quindi, la capacità di tornare ad uno stato di equilibrio dopo e nonostante l’intervento di un fattore di perturbazione esterno e, quindi, in ipotesi di un agente inquinante, costituisce l’essenza prima di un ecosistema, perché un ecosistema sul quale l’agente inquinante ha agito con tale e tanta forza da annullare la capacità di autoregolazione e, quindi, la capacità di ritornare ad uno stato di equilibrio è un’entità irreversibilmente alterata e, quindi, tecnicamente “morta”.
A mero titolo esemplificativo, si pensi all’iniezione od allo scarico reiterato nel tempo in un lago di piccole o medie dimensioni di grandi quantitativi di solventi clorurati o di altri composti chimici, il cui impatto sull’ecosistema è di così tale e tanta forza da cancellare la componente biotica del lago e da contaminare in modo irreversibile le matrici ambientali acqua e suolo.
L’inquinamento “mero” della matrice ambientale o dell’ecosistema – il limite inferiore del sistema di tutela introdotto dall’art. 452 bis del c.p. (il caso esaminato dalla sentenza della Sez. III della Corte di Cassazione, n. 50018 del 6.11.2018).
Proposta una definizione del termine “ecosistema” e richiamata quella che al termine “matrice ambientale” assegna il più volte richiamato art. 240 del TUA lett. a), appare agibile il percorso interpretativo che conduce alla definizione del c.d. limite inferiore della tutela predisposta dall’art. 452 bis del c.p., limite che può ragionevolmente fissarsi nell’alterazione della matrice ambientale o dell’ecosistema che non abbia il carattere della irreversibilità e che si caratterizzi, altresì, per significatività e misurabilità.
L’avvenuto accertamento, quindi, del supero dei valori massimi di concentrazione di uno o più inquinanti può non determinare necessariamente ed in modo automatico il configurarsi del delitto di inquinamento ambientale se, nel concreto, non sia vieppiù accertata l’avvenuta messa in discussione della struttura e della funzione della matrice e, quindi, un’alterazione significativa e misurabile di essa, con l’ulteriore surplus di necessità di prova costituito, per le sole matrici ambientali suolo e sottosuolo, dalla dimensione dell’alterazione che deve involgere porzioni estese o significative sia dell’uno che dell’altro.
Vi è da chiedersi se sia anche vero il contrario e, cioè, se la prova dell’alterazione reversibile, significativa e misurabile o della matrice ambientale o dell’ecosistema imponga necessariamente o necessariamente “passi” per la dimostrazione in concreto dell’avvenuto supero di una o più CSC o della CSR ovvero se da tale prova se ne possa prescindere, consentendo all’interprete di poter percorrere un diverso ma parimenti efficace ed indiziante percorso di prova.
Sul tema pare estremamente concludente illustrare, anche considerando le finalità perseguite dal presente corso, il caso sul quale si è pronunciata la sentenza della terza Sezione penale della Corte di Cassazione, la n. 50018 del 6.11.2018, che ha affrontato il tema del limite inferiore del delitto d’inquinamento ambientale e, più nello specifico, quello del rapporto tra il traffico illecito dei rifiuti ed il “connesso” delitto d’inquinamento ambientale.
Il caso è quello degli operai di una società, si legge nella sentenza, che “ …in una cava….furono sorpresi a scaricare e movimentare, con mezzi della società, rifiuti speciali colà illecitamente depositati senza autorizzazione ed in ingenti quantità…(si accertò l’ abusivo sversamento in un’area di cava dismessa di centinaia di migliaia di metri cubi di rifiuti speciali di svariata origine, pericolosi e non, provenienti dalle operazioni di selezione e cernita effettuate dalla società….e la maggior parte del materiale rinvenuto in superficie appariva depositato di recente, per assenza di vegetazione o di altri segni lasciati da eventi atmosferici”.
L’area interessata dallo smaltimento illecito era costituita da una superficie stimata nell’ordine di 18.000 mq., area interessata dallo sversamento di rifiuti anche in “verticale” e, cioè, sino ad otto metri di profondità, con sostanziale riempimento di quasi tutto il sito di cava.
A ricorrere alla Suprema Corte era il difensore che deduceva la mancanza dei gravi indizi di colpevolezza del delitto di cui all’art. 452 bis del c.p., avendo il consulente tecnico del Pubblico Ministero certificato “solo” la potenziale contaminazione del sito, contaminazione potenziale che l’imputato ricorrente, tra l’altro, non contestava in punto di fatto.
Ad essere oggetto di ricorso era un’ordinanza applicativa di una misura cautelare personale per il delitto di cui all’art. 452 bis del c.p.
Più nello specifico la consulenza tecnica del Pubblico Ministero aveva accertato il superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione per siti ad uso verde pubblico, privato e residenziale, con riferimento al berillio, a più metalli pesanti, agli idrocarburi pesanti ed al PCB.
Gli esiti della consulenza tecnica del Pubblico Ministero avevano ricevuto ulteriore conferma negli accertamenti effettuati dalla competente ARPA.
Questo il principio di diritto formulato dalla Suprema Corte: “…sarebbe errato ritenere che per potersi affermare la sussistenza del reato previsto dall’art. 452 bis del c.p. si debba necessariamente accertare che ci si trovi di fronte ad un sito contaminato secondo la definizione di cui al decreto Legislativo n. 152 del 2006, art. 240, lett. e), i cui concetti elaborati in un differente contesto ed a diversi fini, in assenza di specifica previsione, non possono essere richiamati per definire gli elementi costitutivi del delitto introdotto dalla successiva Legge 22 maggio 2015, n. 68, come questa Corte ha già riconosciuto nelle decisioni infra immediatamente citate. Quanto al particolare profilo qui esaminato, deve osservarsi che il Decreto Legislativo n. 152 del 2006, art. 240 e le definizioni in esso contenute valgono a disciplinare l’attività di bonifica dei siti quale prevista dal Titolo 5 del decreto, in relazione ai profili di rischio sanitario ed ambientale sulla salute umana derivanti dall’esposizione prolungata all’azione delle sostanze presenti nelle matrici ambientali contaminate. Con riguardo al delitto di inquinamento ambientale, deve invece affermarsi il principio secondo cui il delitto di danno previsto dall’art. 452 bis del c.p.(al quale è tendenzialmente estranea la tutela della salute pubblica) ha quale oggetto di tutela penale l’ambiente in quanto tale e postula l’accertamento di un concreto pregiudizio a questo arrecato, secondo i limiti di rilevanza determinati dalla nuova norma incriminatrice, che non richiedono la prova della contaminazione del sito nel senso indicato dal Decreto Legislativo n. 152 del 2006, art. 240 e ss.”.
Il principio di diritto formulato dalla Suprema Corte è foriero di plurimi spunti di valutazione e di riflessione, soprattutto in relazione al concreto atteggiarsi dell’investigazione preliminare necessaria a provare la sussistenza del delitto di inquinamento ambientale.
Il primo rimanda a quella parte del principio di diritto che non ravvisa la normativa necessità di “passare”, in casi del tipo di quello esaminato dalla Suprema Corte, dalla prova dell’avvenuto superamento della concentrazione soglia di contaminazione anche solo per un inquinante tabellato, superamento che, come scritto, conferisce all’area di indagine lo stato di “sito potenzialmente contaminato”.
Tale percorso di prova, infatti, di regola, richiede al Pubblico Ministero – per poter essere efficacemente intrapreso e concluso – la messa in campo di competenze tecniche particolarmente qualificate, non sempre così facili da reperire e, soprattutto, particolarmente onerose dal punto di vista economico.
Tale percorso di prova, di regola, impone il prelievo garantito (ex art. 360 del c.p.p.) di un campione rappresentativo della matrice ambientale indagata, prelievo che, di regola, impone la predisposizione di un, seppur embrionale, piano di caratterizzazione dell’area da indagare, il compimento di carotaggi e le conseguenziali operazioni di analisi del campione prelevato.
In casi del tipo di quelli portati al vaglio della Suprema Corte vi è da chiedersi quale possa essere l’alternativo percorso di prova, diverso da quello costituito dall’accertamento dell’eventuale supero delle CSC nella matrice ambientale indagata, percorso da intraprendere per giungere al risultato finale di ritenere provato in ciascuno dei suoi elementi costitutivi il delitto di inquinamento ambientale.
In un caso del tipo di quelli portati al vaglio della Suprema Corte, caso nel quale la Corte ha ritenuto sussistenti i gravi indizi di colpevolezza del delitto di cui all’art. 452 bis del c.p. rigettando, quindi, il ricorso dell’imputato, sarebbe stato possibile contestare il delitto di inquinamento ambientale senza far leva sui risultati della consulenza tecnica che conclamavano il sito quale area potenzialmente contaminata e valorizzando solamente, quindi, il dato costituito dallo sversamento nell’area, con condotte reiterate nel tempo, di centinaia di migliaia di metri cubi di rifiuti speciali anche pericolosi, sversamento che aveva interessato una superficie di terreno di poco inferiore ai due ettari e per una profondità di otto metri?
Può essere proprio questo il terreno di prova su cui può esprimere tutta la sua forza caratterizzante del delitto di inquinamento ambientale il profilo della significatività e della misurabilità dell’alterazione reversibile della matrice ambientale, marcando, in modo ancor più nitido, il limite inferiore della tutela penale predisposta dall’art. 452 bis del c.p. e la sua netta autonomia concettuale dalle previsioni contenute nel TUA.
L’enorme quantità dei rifiuti abusivamente smaltiti, il loro essere rifiuti speciali anche pericolosi, l’essere stato tale smaltimento illecito reiterato nel tempo, l’avere interessato una porzione estesa del suolo (18000 mq.) nonché una porzione estesa del sottosuolo (lo smaltimento illecito aveva interessato l’area anche in verticale sino ad otto metri di profondità) potevano costituire parametri più che esaustivi per desumere che, nel caso concreto, l’azione umana avesse arrecato un’alterazione ad una o più matrici ambientali “significativa” ed, in un caso del tipo di quelli esaminati, anche “misurata”.
Può ragionevolmente ritenersi, però, che l’accertamento tecnico sulle matrici ambientali interessate dallo sversamento illecito di migliaia di metri cubi di rifiuti recuperi tutta la sua forza rappresentativa, ad esempio sul terreno dell’indagine finalizzata ad accertare se l’alterazione abbia avuto il carattere della irreversibilità e, quindi, sul terreno della dimensione ed estensione del danno alla matrice, sia nell’ottica di un giudizio sulla rilevanza penale del fatto (e quale rilevanza penale) sia nell’ottica dello svolgimento di un dibattimento, che impone all’accusa di provare il fatto contestato al di là di ogni ragionevole dubbio e, quindi, un onere probatorio decisamente più consistente di quello previsto dall’art. 273 del c.p.p., comma I.
E, probabilmente, anche, che tale accertamento tecnico recuperi tutta la sua forza rappresentativa proprio sul terreno della significatività dell’inquinamento, perché non si intravedono, ad oggi, fattori ostativi dal punto di vista concettuale quanto meno ad ipotizzare come significativo un inquinamento che abbia caratterizzato una sola matrice – ma con superi accertati di più sostanze inquinanti o anche solo di una sola di esse ma per valori centinaia o migliaia di volte superiori al limite di Legge – o, addirittura, che abbia caratterizzato più matrici ambientali, compresa l’acqua o l’aria e, cioè, le matrici per le quali il legislatore che ha introdotto l’art. 452 bis del c.p. non ha previsto gli ulteriori requisiti dell’estensione e della significatività, invece previsti per il suolo ed il sottosuolo.
Parimenti non si intravedono ostacoli dal punto di vista concettuale a ritenere integrata la fattispecie in questione anche in caso di accertato supero della concentrazione soglia di rischio, supero che, come scritto, presuppone che, a valle di una complessa e spesso interminabile procedura amministrativa, si accerti l’esistenza non solo di un rischio per l’ambiente ma, addirittura, anche per la salute umana.
Anche al ricorrere di casi di tal fatta potrebbe trovare applicazione tale fattispecie, eventualmente nella forma di cui all’art. 452 quinquies, comma secondo, e, cioè, nella forma costituita dall’aver generato una situazione di pericolo d’inquinamento ambientale.
Di certo il principio di diritto cristallizzato nella pronuncia di legittimità richiamata vale ad escludere automatismi valutativi agganciati a numeri o a soglie o a valori tabellati.
I presupposti di applicazione del reato di cui all’art. 257 del TUA.
Il mancato superamento del limite inferiore della tutela predisposta dall’art. 452 bis del c.p. determina l’attrazione dei fatti di accertato supero delle CSC nell’area del “penalmente irrilevante”, cioè, nell’area del “mero” obbligo di messa in sicurezza e di bonifica del sito contaminato e, cioè, del sito nel quale si sia accertata la presenza, oltre che di un rischio ambientale, anche del rischio sanitario e, quindi, l’avvenuto supero della CSR.
Fatti salvi i casi nei quali le peculiarità del caso concreto abbiano finito per radicare anche la sussistenza degli elementi costitutivi del reato contravvenzionale punito con la pena alternativa di cui all’art. 257 del TUA.
Il reato contravvenzionale citato è stato interessato, nel corso dei suoi ormai quindici anni di vigenza, da un’evoluzione spiccata e progressiva dell’interpretazione che di esso ha dato la Suprema Corte, evoluzione che ha prodotto quale effetto quello di attenuare la portata obiettivamente residuale di questa fattispecie, presidiando con la sanzione penale aree che, nella primissima interpretazione della Suprema Corte, erano state valutate del tutto estranee all’ambito oggettivo di applicazione della fattispecie, in coerenza piena, peraltro, con un lessico legislativo che a quella fattispecie pareva aver dato una dimensione periferica.
Ad essere selezionata quale condotta tipica è stata, in primis, quella dell’aver cagionato l’inquinamento del suolo, del sottosuolo, delle acque superficiali o delle acque sotterranee con il superamento delle concentrazioni soglia di rischio, ove non si sia, nel contempo, provveduto alla bonifica in conformità al progetto approvato dall’autorità competente nell’ambito del procedimento di cui agli artt. 242 e ss.
In secundis, la condotta di mancata effettuazione della comunicazione di cui all’art. 242, che dà luogo ad una fattispecie di reato di natura contravvenzionale, punita con pena alternativa, seppur in modo meno grave rispetto alla prima.
A determinare l’inasprimento del trattamento sanzionatorio, con la comminatoria sia della pena dell’arresto che di quella dell’ammenda, è, invece, la circostanza che l’inquinamento sia stato provocato da sostanze pericolose.
Il lessico utilizzato per la costruzione della fattispecie richiama l’avvenuto superamento delle concentrazioni soglia di rischio ed il non aver bonificato il sito in conformità al progetto approvato dall’autorità competente nell’ambito del procedimento di cui all’art. 242 e ss. del TUA.
Il richiamo all’avvenuto supero delle CSR pareva confinare la portata oggettiva della fattispecie ai siti contaminati e non anche a quelli solo potenzialmente contaminati, siti contaminati in relazione ai quali l’iter previsto dall’art. 242 del TUA si fosse spinto sino al punto dell’avvenuta approvazione del progetto di bonifica, approvazione alla quale avesse, però, fatto seguito una non conforme attuazione del progetto da parte del responsabile dell’inquinamento, evidentemente sul presupposto che tale condotta, giuridicamente qualificata come condizione obiettiva di punibilità intrinseca a contenuto negativo, avesse determinato un ulteriore aggravarsi dell’offesa all’interesse protetto già perpetrata dalla condotta d’inquinamento. 5
L’interpretazione successiva della Suprema Corte, a partire dall’anno 2010, ha potenziato il respiro applicativo della norma, prevedendo che il reato di cui all’art. 257 si configuri anche in una fase cronologicamente antecedente a quella innescata dall’adozione del progetto di bonifica ma a quest’ultima, però, intimamente collegata e, cioè, quella dell’aver impedito la stessa formazione del progetto di bonifica e, quindi, la sua realizzazione, non attuando il piano di caratterizzazione necessario per la predisposizione del piano di bonifica. 6
Nonché ritenendo il reato in questione configurabile, oltre che in relazione alle operazioni di bonifica, anche a quelle di messa in sicurezza. 7
Dall’ambito oggettivo di applicazione della fattispecie in commento esula, quindi, l’avvenuto accertamento del supero della concentrazione soglia di contaminazione, in ipotesi anche in misura di gran lunga superiore al limite di Legge ed anche in caso di avvenuto accertamento di superi di più sostanze inquinanti, fatti questi, quindi, destinati a ricadere nell’area del “penalmente irrilevante” ove si sia accertato che il limite inferiore della fattispecie di cui all’art. 452 bis del c.p. non sia stato superato.
All’area del penalmente irrilevante si ritiene vada ricondotto anche l’avvenuto supero della concentrazione soglia di rischio, perché il tenore letterale della norma citata e l’interpretazione che di essa hanno cristallizzato le pronunce di legittimità sul tema spinge decisamente più in avanti il confine dell’area in cui ha inizio il fatto penalmente tipico, tipicità destinata a materializzarsi nel solo caso in cui la bonifica abbia avuto luogo in difformità dal relativo progetto e, quindi, in un segmento della procedura amministrativa collocato nella parte finale di essa.
L’esclusione di qualsivoglia automatismo valutativo e la portata residuale della fattispecie di cui all’art. 257 tracciano, quindi, un’area “grigia”, dai confini e dai contorni non così nitidamente definiti, con prevedibili conseguenze sul terreno dell’applicazione in concreto delle fattispecie in questione.
- Sul delitto di inquinamento ambientale si segnalano i contributi di DI FIORINO E. e PROCOPIO F., “Inquinamento ambientale: La Cassazione riempie di contenuti la nuova fattispecie incriminatrice”, di commento a Cass. Sez. III, 3 novembre 2016, n. 46170, pubblicato su Giurisprudenza penale web 2016, 12; nonché MELZI d’ERIL C., “L’inquinamento ambientale a tre anni dall’entrata in vigore”, pubblicato su Diritto Penale contemporaneo 7/2018.↩︎
- Sul punto Cfr. Cass. Pen. Sez. III, n. 46170 del 21.9.2016; Cass. Pen. Sez. III, n. 10515 del 27.10.2016; Cass. Pen. Sez. III, n. 15865 del 31.1.2017 e, da ultimo, Cass. Pen. Sez. III, n. 50018 del 6.11.2018; nonché MOLINO P., op. già cit.↩︎
- In tal senso Cfr. Cass. Sez. III, n. 3147, del 6 aprile del 1993.↩︎
- In tal senso MOLINO P., op. già cit.↩︎
- Cfr. Cass. Pen., Sez. III, 3 marzo 2009, n. 9492, ed, in costanza di vigenza dell’art. 17 del Decreto Legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, anche Cass. Pen., Sez. III, 9 luglio 2007, n. 26479.↩︎
- Cfr. Cass. Pen., Sez. III, 6 ottobre 2010, n. 35774; Cass. Pen., Sez. IV, 13 luglio 2016, n. 29627, e Cass. Pen., Sez. III, 30 aprile del 2019, n. 17813.↩︎
- Cfr. Cass. Pen., Sez. III, 27 febbraio 2014, n. 9619.↩︎