Il rapporto tra il delitto di traffico illecito di rifiuti e quello d’inquinamento ambientale: un’ipotesi di connessione da concorso formale o da continuazione dei reati (Parte II).
di Giuseppe De Nozza
L’inquinamento significativo e misurabile della matrice ambientale o dell’ecosistema (il caso esaminato dalla Corte di Cassazione, Sez. III, 30 gennaio 2020, n. 9736)
Se la significatività dell’alterazione della matrice o dell’ecosistema costituisce il limite inferiore della tutela penale introdotta con l’art. 452 bis del c.p., parimenti complesso è riempire questo termine di un significato preciso ed univoco che consenta di orientare l’altrettanto complesso giudizio di tipicità del fatto concreto, giudizio che è inevitabilmente destinato ad oscillare tra un polo costituito – al più – da un reato contravvenzionale punito con pena alternativa ed un altro costituito da un delitto la cui cornice edittale può proiettarsi sino agli otto anni di reclusione ove ricorrano i casi dell’aggravante ad efficacia comune prevista dal comma II dell’art. 452 bis del c.p.
L’attribuzione all’aggettivo “significativo” di un preciso significato è opera complicata da un Legislatore che non ha previsto soglie dimensionali o numeriche che valessero da bussola nel percorso d’interpretazione della norma e, con ogni probabilità, proprio la complessità dell’opera di riempimento di questo contenuto ha spinto verso la denuncia di un deficit di determinatezza della fattispecie di cui all’art. 452 bis del c.p.
Ancora una volta un ausilio rilevante riviene dall’esame delle pronunce della Suprema Corte ed, in particolare, di quella della Sez. III, 30 gennaio del 2020, n. 9736.
Ancora una volta ad esser messo in discussione era un provvedimento applicativo di una misura cautelare personale fondata su gravi indizi di colpevolezza per il delitto di cui all’art. 452 bis del c.p., assumendosi cagionata la compromissione ed il deterioramento significativo e misurabile di un ecosistema marino, nella specie quello dei fondali marini di Punta Campanella e Capri, in conseguenza di un’attività di pesca del corallo rosso mediterraneo svolta in assenza di titolo autorizzativo e con modalità vietate, nella specie mediante la pesca subacquea con uso di bombole e rottura del substrato roccioso, con la previsione che il ripristino delle condizioni ambientali alterate avrebbe richiesto circa 50 anni, sempre che medio tempore non fossero intervenuti nuovi raccolti o altri fattori di perturbazione di questo ecosistema marino.
Ad essere stati abusivamente sottratti a quell’ecosistema marino erano stati circa tre chilogrammi di corallo rosso.
Si denunciava alla Suprema Corte, tra le altre censure, l’illegittimità costituzionale dell’art. 452 bis del c.p. per violazione degli artt. 25 della Costituzione e 7 della CEDU, sostenendosi che la fattispecie in questione era indeterminata perché non era possibile apprezzare oltre quale limite la contaminazione divenisse inquinamento ambientale, essendo vaghi e generici i parametri della significatività e della misurabilità.
Si assumeva che il fatto accertato fosse da ricondurre nel perimetro di applicazione del D.M. del 21.12.2018 del Ministero delle Politiche Agricole ed alimentari, avente ad oggetto la disciplina della pesca del corallo e le sanzioni in caso di pesca in assenza di licenza.
La questione d’incostituzionalità veniva dichiarata manifestamente infondata ma, prima ancora di affrontare le ragioni di tale valutazione di manifesta infondatezza, la Suprema Corte stringeva il focus proprio sul parametro della “significatività”, parametro che portava ad escludere dal perimetro della tipicità tutte quelle forme di alterazione dell’ecosistema che “non avessero inciso in modo apprezzabile sull’interesse protetto” e che non si prestassero ad essere misurate solo sulla base di dati oggettivi, quindi dati controllabili e confutabili.
I due parametri, che, secondo la Suprema Corte, richiamavano due diverse connotazioni dell’offesa all’interesse protetto, una incidente sul piano della gravità, l’altra sul piano dell’accertamento, avevano concorso, con il loro preciso ed univoco significato, alla costruzione di una fattispecie di reato sufficientemente determinata; la Corte si determinava, quindi, alla declaratoria di manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale perché il lessico utilizzato dal legislatore si caratterizzava per significato univoco, sia sotto il profilo della tipizzazione degli eventi di danno penalmente rilevanti – saldamente agganciati al requisito dell’apprezzabilità dell’offesa all’interesse protetto ed a quello della verificabilità oggettiva dell’offesa medesima – sia sotto il profilo della precisa declinazione dell’oggetto della condotta, costituito o dalla matrice ambientale o dall’ecosistema.
Ad esser, quindi, tipica ai sensi dell’art. 452 bis del c.p. è l’alterazione apprezzabile e verificabile della originaria consistenza della matrice ambientale o dell’ecosistema, sia che essa abbia assunto la forma della “compromissione” sia che abbia assunto quella del “deterioramento”.
“Compromissione” da intendersi, secondo la Corte, quale condizione di “squilibrio funzionale, incidente sui processi naturali correlati alla specificità della matrice o dell’ecosistema medesimi e che attiene alla relazione del bene aggredito con l’uomo ed ai bisogni o interessi che il bene medesimo deve soddisfare”.
“Deterioramento” da intendersi, invece, “quale condizione di squilibrio strutturale, connesso al decadimento dello stato o della qualità degli stessi e che consiste in una riduzione della cosa che ne costituisce oggetto in uno stato tale da diminuirne in modo apprezzabile il valore o da impedirne anche parzialmente l’uso, ovvero da rendere necessaria per il ripristino una attività non agevole”.
Sul tema del significato da attribuire ai termini “compromissione” e “deterioramento” l’indirizzo interpretativo della Suprema Corte è ormai consolidato. 1
Il fatto portato al vaglio della Suprema Corte era, quindi, da valutarsi tipico ai sensi dell’art. 452 bis del c.p., fattispecie di reato destinata a trovare applicazione in quanto reato più grave rispetto a quelli contravvenzionali previsti dagli artt. 7 ed 8 del Decreto Legislativo 9 gennaio del 2012, n. 4, in tema di pesca illegale.
L’alterazione irreversibile dell’equilibrio dell’ecosistema – il limite superiore del sistema di tutela introdotto con l’art. 452 bis del c.p.
L’irreversibilità dell’alterazione dell’ecosistema costituisce il limite superiore della tutela predisposta dall’art. 452 bis del c.p.
Indipendentemente dall’esistenza e dall’impatto su di esso di un fattore esterno, nella specie di un agente inquinante, nel suo fisiologico funzionamento l’ecosistema si caratterizza per un equilibrio dinamico, perché l’interazione quotidiana tra la componente biotica e quella abiotica definisce di quell’equilibrio contenuti che, seppure impercettibilmente, sono oggetto di continue modificazioni nel tempo.
La capacità di autoregolazione e, quindi, la capacità di tornare ad uno stato di equilibrio dopo e nonostante l’intervento di un fattore di perturbazione esterno e, quindi, in ipotesi di un agente inquinante, costituisce l’essenza prima di un ecosistema, perché un ecosistema sul quale l’agente inquinante ha agito con tale e tanta forza da annullare la capacità di autoregolazione e, quindi, la capacità di ritornare ad uno stato di equilibrio è un’entità irreversibilmente alterata e, quindi, tecnicamente morta.
A mero titolo esemplificativo, si pensi all’iniezione od allo scarico reiterato nel tempo in un lago di piccole o medie dimensioni di grandi quantitativi di solventi clorurati o di altri composti chimici, il cui impatto sull’ecosistema è di così tale e tanta forza da cancellare la componente biotica del lago e da contaminare in modo irreversibile le matrici ambientali acqua e suolo.
La fattispecie di disastro ambientale presidia, quindi, ogni singolo ecosistema contro l’impatto su di esso di un qualsivoglia agente o fattore inquinante che abbia determinato l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di quell’ecosistema e, quindi, abbia in concreto cancellato la capacità del sistema di ridarsi e ritrovare un nuovo punto di equilibrio.
Sul terreno della prova, la dimostrazione dell’avvenuta alterazione irreversibile dell’equilibrio, a parere di chi scrive, non può prescindere, fatte salve le peculiarità dei singoli casi concreti che possono caratterizzarsi per evidenze apprezzabili ictu oculi, dal supporto e dall’ausilio di specifiche e consolidate esperienze e competenze tecnico scientifiche, quali quelle dispiegabili sul campo dagli Organi tecnici dello Stato e delle Regioni, quali ISPRA ed ARPA, o quali quelle acquisibili al procedimento o al processo penale con le forme della consulenza tecnica o della perizia.
La dimostrazione di un’alterazione irreversibile dell’equilibrio dell’ecosistema impone l’acquisizione al procedimento penale o al processo, da un lato, di qualificate conoscenze delle caratteristiche chimico-fisiche e biologiche dell’inquinante immesso, dall’altro un’altrettanta qualificata valutazione dei meccanismi naturali di degradazione chimica o biologica o di allontanamento fisico dell’inquinante che l’ambiente ricettore è in grado di sviluppare nei confronti dell’inquinante medesimo.
Particolarmente complesso, in punto di prova, si rivelerà l’accertamento delle capacità “auto-depurative dell’ambiente ricettore”, che costituisce un aspetto sito specifico da valutarsi caso per caso, alla luce della valutazione dei fenomeni locali di capacità degradativa che i diversi meccanismi fisici, chimici o biologici, sono in grado di sviluppare nel particolare contesto territoriale considerato.
Questo specifico accertamento non potrà che essere condotto con contenuti e metodi di volta in volta diversi in relazione alle peculiarità del caso concreto, tenendo, ovviamente, presente che la natura irripetibile dell’accertamento impone il ricorso alle forme di cui all’art. 360 del c.p.p.
Più nello specifico, le professionalità di supporto necessarie per svolgere tali accertamenti sono, tendenzialmente, quelle del chimico e del biologo per la valutazione delle caratteristiche intrinseche di degradabilità o di rimovibilità dell’inquinante immesso e quelle degli esperti in scienze ambientali (chimica ambientale, biologia dell’ambiente, idrologia) per la valutazione dei fenomeni operanti nell’ambiente ricettore.
Un’ulteriore riflessione si impone con riferimento a quelle situazioni di gravissima compromissione dell’equilibrio di un ecosistema che, pur non avendo il carattere della irreversibilità, si prestino ad essere ripristinate e riportate alla condizione di equilibrio in tempi lunghissimi o, comunque, non rapportabili con le categorie dell’agire umano.
Un aspetto, infatti, che si rivela necessario accertare e valutare è come debba essere considerato l’orizzonte temporale della reversibilità, vale a dire se sia possibile individuare dei limiti numerici di tempo che costituiscano l’esplicitazione del concetto di irreversibilità ed eventualmente attingendo a quale fonte.
Su questo aspetto la valutazione non potrà che essere indicativa, tenendo conto, tuttavia, del fatto che esistono orizzonti temporali molto diversi tra:
- un inquinante biodegradabile o volatile (ad esempio, l’alcool o il composto ammoniacale) immesso nel suolo o in un’acqua di lago, la cui scomparsa avviene in tempi valutabili nell’ordine dei giorni o dei mesi;
- un inquinante, come un idrocarburo, sversato in mare o lungo un litorale, per il quale esistono meccanismi biologici naturali di degradazione, con tempi, tuttavia, nell’ordine degli anni;
- o, infine, una specie refrattaria, non solubile e non volatile quali microinquinanti clorurati o IPA, destinati a permanere nella matrice contaminata per tempi di decine o centinaia di anni.
Appare ragionevole ritenere, allo stato, che la fattispecie di disastro ambientale di cui all’art. 452 quater, comma II, n. 1, possa ritenersi integrata al ricorrere di situazioni di compromissione dell’ecosistema quali quelle descritte, a mero titolo esemplificativo, al precedente punto tre, situazioni che, pur non potendosi definire tecnicamente e teoricamente irreversibilmente compromesse, si prestano, però, ad essere recuperate in più decenni o secoli2.
L’abusività della condotta di inquinamento.
L’abusività della condotta di inquinamento ambientale costituisce connotato che deve caratterizzare qualsivoglia alterazione reversibile, significativa e misurabile della matrice ambientale o dell’ecosistema.
Trattasi di clausola di illiceità speciale che, al pari delle altre clausole di illiceità speciale, è stata utilizzata dal Legislatore per connotare fatti già di per sé illeciti – perché penalmente rilevanti – di un ulteriore profilo di illiceità, di carattere evidentemente extra penale.
L’abusività del fatto che ha cagionato l’alterazione è anch’esso terreno di prova e, quindi, al pari di quanto già fatto con riferimento agli altri elementi costitutivi della fattispecie, essenziale appare definire il più analiticamente possibile il contenuto ed il significato della locuzione utilizzata dal Legislatore.
La Legge 22 maggio del 2015, n. 68, ha costituito, come detto, il prodotto del recepimento – tardivo – in Italia della direttiva n. 99 del 2008 del Parlamento Europeo e del Consiglio, in tema di tutela penale dell’ambiente, con la quale il Legislatore comunitario si è posto l’obiettivo di alzare in modo significativo il livello di tutela del bene ambiente nel territorio dell’Unione, promuovendone una più efficace tutela.
Dopo aver tipizzato agli artt. 3 e 4 i fatti da far assurgere ad illecito penale, con il successivo art. 5 la direttiva ha previsto che ciascuno Stato membro debba adottare tutte le misure necessarie per assicurare che i reati di cui ai precedenti artt. 3 e 4 siano puniti con sanzioni penali efficaci, proporzionate e dissuasive.
Ad una logica di tutela penale efficace, proporzionata e dissuasiva ha obbedito l’introduzione, con la Legge n. 68 del 2015, in un sistema normativo sino a quel momento costruito sul versante sanzionatorio – salvo rare eccezioni – con il ricorso al reato contravvenzionale, di fattispecie di reato di natura delittuosa, punite, quindi, con sanzioni più gravi.
Il richiamo alla direttiva n. 99 del 2008 appare essenziale per illuminare la logica e la ratio di fondo della Legge n. 68 del 2015 e lo è ancor di più sullo specifico terreno della abusività della condotta, perché la direttiva, nel tipizzare all’art. 3 i fatti che i singoli legislatori nazionali avrebbero dovuto far assurgere ad illecito penale, subordina la rilevanza penale degli stessi al ricorrere di una duplice condizione e, cioè, da un lato, che gli stessi abbiano il carattere dell’illiceità e, dall’altro, che siano posti in essere intenzionalmente (e, quindi, con dolo) o, quanto meno, per grave negligenza (e, quindi, per colpa).
Il connotato di illiceità che, secondo il Legislatore dell’Unione Europea, deve contraddistinguere le attività destinate ad essere tipizzate come reato è riempito di significato dal precedente art. 2 della medesima direttiva, ove si definiscono illecite le attività che:
- violano gli atti legislativi adottati ai sensi del Trattato CE ed elencati nell’allegato A);
- violano gli atti legislativi adottati ai sensi del trattato Euratom ed elencati nell’allegato B), ma in questo caso in relazione alle sole attività previste dal medesimo Trattato Euratom;
- violano gli atti legislativi o i regolamenti amministrativi o le decisioni adottate da un’autorità competente di uno Stato membro che dia attuazione alla legislazione comunitaria di cui ai punti nn. 1 e 2.
Nella costruzione del Legislatore dell’Unione Europea, quindi, i fatti di reato da tipizzarsi da parte di ciascuno Stato devono, oltre che essere – sul piano della colpevolezza – riconducibili alla cosciente volontà di commetterli in capo al soggetto autore o, quanto meno, dallo stesso prevedibili e, quindi, evitabili, caratterizzarsi di un ulteriore requisito, chiaramente individuato nell’essere quei fatti, oltre che colpevolmente commessi, anche contra ius e, cioè, in violazione di Legge.
Con ogni probabilità, il senso e la portata della presenza della locuzione abusivamente è proprio quello di dare attuazione alla direttiva n. 99 del 2008, nella parte in cui circoscrive la rilevanza penale dei fatti facendo uso del doppio criterio della colpevolezza e dell’illiceità.
Sull’interpretazione della portata e del significato da attribuirsi alla locuzione abusivamente sin da subito si è acceso un vivace e franco dibattito nella dottrina del diritto penale dell’ambiente ma spunti significativi d’interpretazione si possono cogliere anche nella relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione3.
Si è argomentato in dottrina che la clausola abusivamente richiami il requisito di illiceità imposto dalla direttiva n. 99 del 2008, che, come detto, demanda al Legislatore nazionale di tipizzare nuove fattispecie di reato, colpevoli e, soprattutto, contra ius, e, quindi, fa obbligo al singolo Stato di connotare di una nota speciale di illiceità i fatti di grave compromissione della matrice o dell’ecosistema.
L’essenzialità di quella clausola sia nella direttiva che nella legislazione italiana che l’ha recepita è stata argomentata valorizzando, nell’ottica di un equo e chiaro contemperamento degli interessi in gioco o, rectius, in conflitto nella delicata materia della tutela penale dell’ambiente, la necessità di delimitare l’ambito del rischio consentito e, soprattutto, nell’ottica di un corretto bilanciamento tra i poteri di uno Stato di diritto, in cui spetta al potere legislativo ed a quello esecutivo di individuare il livello di inquinamento tollerabile perché socialmente accettato ed al potere giudiziario di sanzionare condotte di inquinamento che hanno superato quel livello4.
Secondo tale impostazione, l’introduzione della locuzione abusivamente è avvenuta nell’ottica di ritenere configurabile e provata la fattispecie in questione solo in presenza di un’alterazione della matrice o dell’ecosistema generata da una condotta colpevole ma, soprattutto, illecita o perché sprovvista di titolo autorizzativo e, quindi, clandestina o perché posta in essere in violazione ed in aperto contrasto con le prescrizioni contenute nel titolo autorizzativo medesimo.
Nel perimetro dell’abusività sono da collocarsi, quindi, i fatti di inquinamento posti in essere in violazione di una norma di Legge – e, data la portata omnicomprensiva della locuzione utilizzata, di una qualsivoglia norma di Legge – e/o delle prescrizioni contenute nei singoli titoli autorizzativi.
Sulla portata generale della clausola di illiceità speciale, val la pena evidenziare che l’originaria stesura della norma subordinava la punibilità della condotta di inquinamento al fatto che la medesima fosse posta in essere “in violazione di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, specificatamente poste a tutela dell’ambiente e la cui inosservanza costituisce di per sé illecito amministrativo o penale”, in tal modo, all’evidenza, restringendo l’ambito di applicazione della fattispecie ai soli casi in cui, da un lato, la normativa violata fosse stata posta a specifica tutela del bene ambiente (con esclusione, quindi, di quelle condotte causative dell’inquinamento ambientale poste in essere in violazione di altre normative, quali, ad esempio, quella posta a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori sui luoghi di lavoro) e, nell’ambito di essa, ai soli casi in cui la condotta fosse stata già tipizzata dal Legislatore quale illecito penale od amministrativo.
La stesura definitiva della fattispecie supera l’originaria impostazione e, con l’introduzione della più ampia e generale locuzione abusivamente, proietta l’ambito oggettivo di applicazione della stessa ben oltre l’orizzonte del diritto penale dell’ambiente, estendendolo anche ai fatti di alterazione della matrice o dell’ecosistema causati per infrazione di regole poste a tutela di interessi diversi da quello squisitamente ambientale5 ed, in ipotesi, anche ad alterazioni causate per infrazione alle regole del diritto europeo di immediata applicazione e di futura adozione6.
Con la pacifica conseguenza che, essendo diversa l’oggettività giuridica tutelata, ben può ipotizzarsi il concorso tra la fattispecie di inquinamento ambientale ed il diverso reato di natura formale previsto dalla disciplina posta a tutela dei beni od interessi diversi da quello ambientale, mentre deve, invece, valutarsi l’assorbimento, nella più grave fattispecie prevista dal titolo VI bis del c.p., del diverso reato di natura formale a tutela dell’ambiente.
Su questo specifico terreno dell’illiceità della condotta, si è sottolineato in dottrina che, abbandonando l’originaria stesura della norma e recependo la più generale ed omnicomprensiva locuzione abusivamente, il Legislatore nazionale ha dato attuazione alla direttiva con rigore maggiore di quello richiesto dalla direttiva medesima, che, circoscrivendo, all’art. 2, lett. A), i, l’illiceità alla violazione degli atti legislativi adottati ai sensi del Trattato CE ed elencati nell’allegato A, evidentemente rimandava per la definizione dell’illiceità della condotta alla sola violazione di norme poste a specifica tutela dell’ambiente, quali quelle, per l’appunto, elencate nell’allegato A al Trattato medesimo7.
Spunti significativi di valutazione, come anticipato, si colgono anche nella relazione del Massimario della Corte di Cassazione8, nel quale si suggerisce di riempire di contenuto la locuzione abusivamente, attingendo al significato che ad essa ha attribuito il consolidato orientamento della Corte di Cassazione in tema di traffico illecito di rifiuti9, fattispecie anch’essa costruita con il ricorso alla nota di illiceità speciale e, quindi, di ritenere abusiva la condotta di inquinamento ambientale:
- nel caso d’assenza di un titolo autorizzativo allo svolgimento dell’attività che ha determinato l’alterazione della matrice o dell’ecosistema;
- in presenza di un titolo autorizzativo nel frattempo scaduto;
- in presenza di un titolo autorizzativo frutto o provento di pactum sceleris o, comunque, di altri fatti penalmente rilevanti e, per questa ragione, “disapplicabile” dal giudice ordinario;
- in presenza di un titolo autorizzativo manifestamente illegittimo;
- in presenza di un titolo pienamente valido ed efficace, in relazione a tutte quelle situazioni in cui la condotta di inquinamento è stata posta in essere in violazione delle prescrizioni e dei limiti contenuti nel titolo autorizzativo medesimo.
Quello dell’abusività della condotta è terreno di prova, quindi, sul quale le valutazioni in punto di diritto sono destinate a svolgere un ruolo essenziale e, quindi, quello della clausola di illiceità speciale è tra i momenti più delicati e complessi della più ampia valutazione che porta a ritenere sussistente – perché provata – la fattispecie in questione, perché impone valutazioni che, investendo l’esistenza, l’ambito di applicazione e l’oggettività giuridica di un numero piuttosto ampio di microsistemi normativi e di provvedimenti amministrativi, vedrà impegnati in primissima persona, prima il pubblico ministero titolare delle indagini e, successivamente il giudice del processo.
Si tratta, con ogni probabilità o, quanto meno, nel maggior numero di casi, di valutazioni che impongono acquisizioni documentali, quali quelle aventi ad oggetto le autorizzazioni all’esercizio delle singole attività, per poi procedere alla verifica di conformità o meno – con il dettato autorizzativo ed, in particolar modo, con le sue prescrizioni – della condotta osservata in concreto dal soggetto che ha cagionato l’alterazione, verifica indispensabile per desumerne il carattere, oltre che colpevole, anche illecito.
Sul tema dei contenuti della clausola di illiceità in commento si è espressa la Suprema Corte con la sentenza della Sez. III, n. 28732 del 27.4.2018, in tema di captazione di acqua pubblica di un lago ad uso privato in violazione dell’art. 17 del R.D. n. 1775 del 1933, consolidando il principio di diritto secondo cui: “La condotta abusiva di inquinamento ambientale, idonea ad integrare il delitto di inquinamento ambientale di cui all’art. 452 bis del c.p., comprende non soltanto quella svolta in assenza delle prescritte autorizzazioni o sulla base di autorizzazioni scadute o palesemente illegittime o comunque non commisurate alla tipologia di attività richiesta, ma anche quella posta in essere in violazione di leggi statali o regionali – ancorché non strettamente pertinenti al settore ambientale – ovvero di prescrizioni amministrative”. 10
- Cfr., oltre la sentenza in commento, anche Cass. Pen., Sez. III, n. 46170 del 21.9.2016, e Cass. Pen., Sez. III, n. 15865 del 31.1.2017.↩︎
- In questa direzione si è espresso MOLINO P., op. già cit. Sul tema del disastro ambientale si segnalano Cass. Pen., Sez. IV, n. 46876 del 7.11.2019; Cass. Pen., Sez. III, n. 9418 del 16.1.2018; Cass. Pen., Sez. III, n. 29091 del 18.6.2018; Cass. Pen., Sez. I, n. 58023 del 17.5.2017; Cass. Pen., Sez. III, n. 46189 del 14.7.2011; Cass. Pen., Sez. IV, n. 36626 del 5.5.2011; Cass. Pen., Sez. V, n. 40330 dell’11.10.2006.↩︎
- Sul punto MOLINO P., op. già cit.↩︎
- In tal senso RUGA RIVA C., “Ancora sul concetto di abusivamente nei delitti ambientali: replica a Gianfranco Amendola”, pubblicato su Lexambiente.it il 6 luglio del 2015.↩︎
- MOLINO P., op. già cit.↩︎
- SIRACUSA L., “La Legge 22 maggio 2015, n. 68, sugli “ecodelitti”: una svolta quasi epocale per il diritto penale dell’ambiente”, contributo pubblicato sul sito Diritto penale contemporaneo il 9 luglio del 2015;↩︎
- RUGA RIVA C., “Il nuovo delitto di inquinamento ambientale”, pubblicato su Lexambiente.it il 23 giugno del 2015;↩︎
- MOLINO P., op. già cit.↩︎
- RAMACCI L., “Prime osservazioni sull’introduzione dei delitti contro l’ambiente nel codice penale e le altre disposizioni della Legge 22 maggio 2015, n. 68”, op. già cit.↩︎
- Si tratta di pronuncia di legittimità in linea ed in sintonia con la precedente sul medesimo tema di Cass. Pen., Sez. III, n. 46170 del 21.9.2016, in tema di inquinamento di acque marine derivante da un’attività di bonifica di fondali effettuata in spregio delle relative prescrizioni progettuali.↩︎