Come inquinare il mare per anni e cavarsela con 150 euro di ammenda, anzi senza pagare niente

Come inquinare il mare per anni e cavarsela con 150 euro di ammenda, anzi senza pagare niente.

di Gianfranco Amendola

Ma è possibile che chi immette scarichi fognari in mare senza depurazione se la cavi con 150 euro di ammenda che non deve neppure pagare perché il reato si è prescritto?

Sembra paradossale ma è quanto certificato da una sentenza della Cassazione appena pubblicata1.

I fatti sono presto detti: fra il 2015 e il 2018 il depuratore fognario del Comune di Termoli (Molise) ebbe notevoli difficoltà di funzionamento per cui vennero più volte scaricati direttamente in mare, a poca distanza dalla costa, reflui fognari, non depurati e maleodoranti, con tutte le conseguenze per i bagnanti ed il turismo. In particolare, il 12 settembre 2015, veniva riscontrata la presenza di una chiazza di colore marrone scuro emergente dal fondale marino, in prossimità della scogliera e nella parte posteriore del muro frangi flutti del porto; tale evenienza era dipesa dalla rottura della condotta del depuratore, in quanto i reflui dovevano essere rilasciati depurati alla distanza di circa due chilometri dalla costa, mentre nel caso di specie veniva rilevata una macchia fungiforme maleodorante a poca distanza anche dalla battigia frequentata dai bagnanti. Circostanza confermata da successivi prelievi ed accertamenti da cui risultava anche la presenza di alcuni “by-pass”, che di regola, avrebbero dovuto operare solo in caso di necessità per deviare il flusso delle acque e superare i vari processi depurativi, al fine di consentire la riparazione di eventuali guasti; mentre, in realtà, a seguito dell’aumento della popolazione (con aumento dei liquami oltre il limite sopportabile dall’impianto) e dei problemi gestionali del depuratore, venivano normalmente utilizzati come mezzo di gestione strutturale delle portate di liquami eccedenti la capacità dell’impianto. Tanto più che il depuratore non era dotato di un sistema di equalizzazione delle portate e dei carichi, per cui non era possibile il contemporaneo afflusso, nella vasca di accumulo, di reflui provenienti dal ciclo di depurazione in portata non superiore a quella massima di progetto e di reflui eccedenti by-passati, nel senso che o arrivavano tutti i reflui in entrata, anche superiori alla portata massima di progetto, o veniva by-passata l’intera portata in entrata. In sostanza, quindi, secondo gli accertamenti della Procura, l’attivazione dei by-pass, se da un lato aveva consentito di deviare i reflui direttamente nella vasca di accumulo finale, in modo da non sovraccaricare l’impianto di depurazione, dall’altro lato aveva provocato, fino alla riparazione del guasto avvenuta nel 2018, lo sversamento sistematico a mare di reflui non depurati, con carichi contaminanti pericolosi per la salute dei bagnanti e la qualità delle acque. A questo proposito, peraltro, come riporta la sentenza, <<il refluo che veniva scaricato a mare senza essere stato depurato o adeguatamente depurato conteneva un carico contaminante costituito da un’elevata quantità di escherichia coli, microrganismo biologico di natura batterica proveniente dalle reti fognarie civili che, come precisato in dibattimento dal funzionario dell’Arpa Molise, pur non avendo un impatto significativo sotto il profilo ambientale, è invece pericoloso per la salute umana e, quindi, per tutti coloro che vengono a contatto con l’acqua contaminata>>.

Se questi sono i fatti accertati, resta da capire quali sono le conseguenze a livello penale. Dalla sentenza risulta, infatti, che inizialmente la Procura aveva ipotizzato il reato di inquinamento ambientale (art. 452 bis c.p.) , secondo cui <<è punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 10.000 a euro 100.000 chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili: 1) delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo; 2) di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna>>, che, tuttavia, era stato escluso dal GUP per “la totale mancanza di prove relativamente all’accertamento della compromissione e/o deterioramento delle acque del mare”. Trattasi di esclusione che, almeno per quanto risulta dalla motivazione riportata, desta notevoli perplessità. In proposito, infatti, il costante orientamento della Suprema Corte sottolinea con chiarezza, e proprio in diversi casi di inquinamento delle acque per difetto di depurazione, che “la ridotta utilizzazione del corso d’acqua in conformità alla sua destinazione quale conseguenza della condotta è perciò già sufficiente a integrare il “danno” che la minaccia della sanzione penale intende prevenire…”2, e, soprattutto, che “il delitto di inquinamento ambientale, di cui all’art. 452-bis cod. pen., è reato di danno, integrato da un evento di danneggiamento che, nel caso del “deterioramento“, consiste in una riduzione della cosa che ne costituisce oggetto in uno stato tale da diminuirne in modo apprezzabile, il valore o da impedirne anche parzialmente l’uso, ovvero da rendere necessaria, per il ripristino, una attività non agevole, mentre, nel caso della “compromissione“, consiste in uno squilibrio funzionale che attiene alla relazione del bene aggredito con l’uomo e ai bisogni o interessi che il bene medesimo deve soddisfare3.

Se, tornando al caso di specie, a questo punto si considera che il Tribunale considera provato <<lo sversamento dei reflui non depurati e ad alta carica batterica nel Mare Adriatico, a ridosso dell’area di balneazione, con conseguente pericolo per salute dei bagnanti>>, con la formazione di <<una macchia fungiforme maleodorante a poca distanza anche dalla battigia frequentata dai bagnanti>>; sottolineando, peraltro, che <<lo scarico di reflui contaminanti a meno di due chilometri dalla costa rappresenta un fattore di pericolo per la salute pubblica, sia perché si tratta di zona di mare notoriamente frequentata da imbarcazioni di pesca o diporto, sia perché l’azione delle correnti marine, facilitata dai bassi fondali dell’Adriatico, che in quel tratto di mare non superano i venti metri, può determinare con facilità la risalita dei reflui verso la superficie>>, appare del tutto evidente la presenza sia della compromissione sia del deterioramento del mare nella sua relazione con i bisogni umani (pesca, balneazione ecc.) secondo l’insegnamento della Cassazione. Conclusione che evidentemente non viene inficiata dalla affermazione che nel delitto in esame è “tendenzialmente estranea la protezione della salute pubblica4, considerando, peraltro, che il danno alla persona (lesione personale o morte) è considerato dall’art. 452-ter, ricalcando la struttura dell’art. 586 c.p., un’aggravante5 del delitto in esame6; anche se, a nostro sommesso avviso, sembra più corretto, anche dal punto di vista sostanziale, considerarla titolo autonomo di reato speciale rispetto al delitto base di inquinamento ambientale. In proposito, comunque, vale la pena di ricordare che, già in una delle prime sentenze in tema di inquinamento ambientale, la Suprema Corte definiva “contraddittoria” una motivazione che da un lato riconosceva “l’esistenza di una situazione di inquinamento esteso, di danno per le matrici ambientali…. e di pericolo per la salute umana, ma, nel contempo, non spiegava “perchè essa non possa configurare un’ipotesi di deterioramento o di compromissione dell’intero ecosistema, o, comunque, un danno ambientale riconducibile ad un deterioramento significativo e misurabile, idoneo a determinare un rischio significativo di effetti nocivi, anche indiretti, sulla salute umana7. Tanto più che il delitto di inquinamento ambientale ha, in sostanza, sostituito, nella pratica giudiziaria, quello di danneggiamento aggravato sino allora utilizzato ogni volta che si riscontrava, comunque, un deterioramento delle acque8, abbondantemente provato nel caso di specie.

Ma torniamo alla sentenza. Una volta escluso il delitto di inquinamento ambientale, rimaneva la contravvenzione di cui all’art. 674 c.p. a carico dei responsabili della società che gestiva l’impianto e del responsabile del settore lavori pubblici del Comune di Termoli, in quanto, nelle rispettive qualità, <<omettevano di assicurare il corretto funzionamento e la necessaria manutenzione dell’impianto di depurazione, nonché di realizzare i lavori e le opere necessarie per consentire il corretto trattamento depurativo di tutti i reflui ivi convogliati prima dell’immissione nel Mar Adriatico, consentendo, mediante due appositi by-pass, posizionati in testa all’impianto, lo scarico di reflui non depurati direttamente in mare, così versando, eccedendo i limiti prescritti nella autorizzazione n. 1661 del 2015, reflui fognari e liquami maleodoranti atti a offendere e a molestare le persone, essendo avvenuti gli sversamenti anche in prossimità della costa; fatto accertato in Termoli a far data dal settembre 2015, data dell’accertamento, con condotta permanente>>. Reato per cui, nel novembre 2021, venivano condannati dal Tribunale collegiale di Larino a 150 euro di ammenda ciascuno. Proposto ricorso, la Cassazione confermava la loro responsabilità ma dichiarava il reato estinto per prescrizione.

Sotto il profilo strettamente giuridico, la motivazione della sentenza non presenta caratteri di particolare novità. La Suprema Corte, infatti, ha confermato la sua costante giurisprudenza secondo cui, ai fini della configurabilità del reato di getto pericoloso di cose, “non si richiede che la condotta contestata abbia cagionato un effettivo nocumento, essendo sufficiente che essa sia idonea ad offendere, imbrattare o molestare le persone, come avvenuto nel caso di specie”; né è necessario un accertamento peritale circa l’entità dell’inquinamento “potendo il giudice, secondo le regole generali, fondare il proprio convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali, in particolare, le dichiarazioni testimoniali di coloro che siano in grado di riferire caratteristiche ed effetti delle immissioni, quando tali dichiarazioni,….non si risolvano nell’espressione di valutazioni meramente soggettive o di giudizi di natura tecnica, ma si limitino a riferire quanto oggettivamente percepito dai dichiaranti. Così come ha riconfermato il “condiviso principio elaborato da questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 16286 del 18/12/2008, dep. 2009, Rv. 243455), secondo cui il reato di getto o versamento pericoloso di cose, previsto nella prima parte dell’art. 674 cod. pen., è configurabile sia in forma omissiva che in forma commissiva mediante omissione (cd. reato omissivo improprio), ogniqualvolta il pericolo concreto per la pubblica incolumità derivi anche dalla omissione, dolosa o colposa, del soggetto che aveva l’obbligo giuridico di evitarlo. Infatti “ciò che rileva è il risultato da evitare, non la condotta, sicché il legislatore si preoccupa di imporre al titolare della posizione di garanzia soltanto un obbligo di risultato, indipendentemente da ogni vincolo di comportamento. In questo senso, il principio di equivalenza tra causalità omissiva e causalità attiva si applica ai reati causali puri, caratterizzati dalla rilevanza dell’evento e dalla indifferenza della condotta”. E, nel caso in esame, il danno all’ambiente si poteva evitare in quanto “esisteva la concreta possibilità, nelle more della realizzazione di una soluzione definitiva, di dirottare la portata eccedente la capacità dell’impianto verso il depuratore di Pantano Basso, che aveva una capacità di progetto di 23.000 abitanti equivalenti e, di fatto, ne serviva solo 5.000, avendo una capacità residua non utilizzata di circa il 50% dell’intero.

Detto questo, resta l’assurdità della sanzione inflitta agli imputati: 150 euro di ammenda ciascuno, e neppure pagati, perché nel frattempo il reato si è prescritto. Tanto più paradossale se si pensa che ci sono volute, per arrivarci, complesse indagini e perizie, con ben due processi, di cui uno addirittura davanti alla Suprema Corte. Ovviamente, questo è dipeso dal fatto che si procedeva per una contravvenzione che prevede la pena dell’ammenda fino a 205 euro o dell’arresto fino a un mese. Contravvenzione che non riguarda specificamente l’inquinamento del mare ma il generico pericolo di imbrattamento molesto di luoghi di pubblico uso, come accade quando non si raccolgono, ad esempio, gli escrementi del proprio cane. Certo, si poteva (e, a nostro sommesso avviso, si doveva) almeno irrogare la pena detentiva (anche se, poi, sarebbe stata spazzata via dalla prescrizione)9, ma la sostanza non cambia e dipende dal tipo di reato per cui è stata irrogata la condanna.

Un’ultima osservazione: nella sentenza si legge che, nonostante la grave inefficienza dell’impianto, dovuta sin dal 2010 all’eccesso di reflui in entrata, i campioni prelevati al pozzetto fiscale sono risultati conformi ai limiti di legge sino al 2015; e che, a tale proposito, “la spiegazione logica data dal Tribunale a tale circostanza era che i by-pass venivano sistematicamente avviati tramite lo spegnimento delle coclee di sollevamento, deviando i reflui direttamente verso la vasca di accumulo finale, per cui l’impianto funzionava solo a intervalli, che comprendevano i momenti nei quali l’Arpa Molise effettuava i prelievi”. Trattasi di comportamento fraudolento certamente grave che, a nostro sommesso avviso, avrebbe meritato un ben più ampio approfondimento in sede di merito, essendo evidente che i responsabili dell’impianto venivano preavvertiti del giorno dei campionamenti e che tutto questo avveniva presumibilmente con la complicità di pubblici dipendenti e funzionari. Tanto più che nel nostro codice penale esiste, tra l’altro, lo specifico delitto di frode processuale (art. 374 c.p.) che ricomprende anche la fase temporale precedente il processo.

Ma di questo non vi è traccia nel procedimento in esame, conclusosi con 150 euro di ammenda (e neppure pagati).


  1. Cass. pen., sez. 3, 3 luglio-27 settembre 2023, n. 39196, Blasetti, Testo completo della sentenza in www.unaltroambiente.it↩︎
  2. ID. , cc 31 gennaio-30 marzo 2017, n. 15865, Rizzo, la quale aggiunge che “quando – come nel caso di specie – la causa è attribuita agli scarichi, non conta la rilevanza penale di ciascuno di essi ma l’evento, purché etiologicamente riconducibile ad una condotta (commissiva o omissiva) a qualsiasi titolo non consentita ovvero posta in essere, per esempio in tema di scarichi, anche solo in violazione di valori non cogenti. Per l’Escherichia Coli, per attenerci al caso in esame, le tabelle 3 e 4 di cui all’allegato V alla parte terza del d.lgs. n. 152 del 2006, prevedono che in caso di autorizzazione allo scarico dell’impianto per il trattamento di acque reflue urbane deve essere fissato il limite ritenuto più opportuno, consigliando comunque un limite non superiore a 5.000 UFC/100mL….”.↩︎
  3. ID., 16 novembre 2017 (cc 6 lug 2017), n. 52436, Campione; conf, tra le tante, ID., 8 febbraio 2019 (Cc 11 ott. 2018) n. 6268, Perrone↩︎
  4. ID., 6 novembre 2018 (ud 19 set. 2018), n. 50018, Izzo ↩︎
  5. In realtà, a nostro avviso, sembra più corretto, anche dal punto di vista sostanziale, considerarla titolo autonomo di reato speciale rispetto al delitto base di inquinamento ambientale↩︎
  6. La direttiva 2008/99/CE punisce alcuni comportamenti illeciti in campo ambientale “che provochino o possano provocare decesso o lesioni gravi alle persone o danni rilevanti alla qualità dell’aria, alla qualità del suolo o alla qualità delle acque, ovvero alla fauna o alla flora”↩︎
  7. ID. 9 novembre 2016 (ud. 12 luglio 2016), n. 46904, in Dir. giust., 10 novembre 2016↩︎
  8. In proposito, si rinvia al nostro Diritto penale ambientale, Pacini, Pisa 2022, pag. 251 e segg. nonché al nostro Ambiente in genere. La prima sentenza della Cassazione sul delitto di inquinamento ambientale, in www.lexambiente.it, 15 novembre 2016↩︎
  9. E’ significativo che, a questo proposito, la Cassazione evidenzi che è stata irrogata l’ammenda “nonostante la rimarcata gravità del pericolo cagionato dal reato”.↩︎
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